giovedì 31 ottobre 2013

BENI RELAZIONALI. UN NUOVO CONCETTO PER IL MONDO DEL TERZO SETTORE

In questo post vorrei parlare di un concetto che ritroviamo spesso negli ultimi tempi legato strettamente al mondo no profit. I beni relazionali. Cercheremo di approfondire questo concetto mettendo al centro della prospettiva relazionale la categoria del “bene relazionale”. Il concetto di “bene relazionale”, introdotto nel dibattito teorico alla metà degli anni Ottanta (1986) dal filosofo e sociologo Pierpaolo Donati e dalla filosofa Martha Nussbaum, si è sviluppato grazie al contributo di diverse discipline, prima fra tutte l’economia. Partiamo dai singoli termini: “bene relazionale”, bene e relazionale. Il termine “bene” viene considerato in una prospettiva sociologica: un bene è pertanto “una realtà che soddisfa dei bisogni propriamente umani, ed è «buona» in quanto realizza questo soddisfacimento”. Secondo tale interpretazione “il concetto di bene equivale a quello anglosassone di good quando viene riferito a una «entità concreta» che viene scambiata e circola tra le persone e i gruppi sociali”, ma che non si identifica con una merce. Il termine “relazionale” rimanda alla relazione sociale “in quanto realtà che «fa» la società e costituisce i fatti sociali”. È solo all’interno di una prospettiva relazionale che è possibile comprendere la specificità dei beni relazionali: “Questa teoria ci consente di arrivare a definire i beni relazionali come quelle entità immateriali che consistono nelle relazioni sociali che emergono da agenti/attori riflessivamente orientati a produrre e fruire assieme di un bene che essi non potrebbero ottenere altrimenti”. In questa ottica la relazione assume una sua “materialità”, nel momento in cui diviene essa stessa “bene”. Ciò che distingue l’approccio economico ai beni relazionali è chiamare beni quelle dimensioni delle relazionali che non possono essere né prodotte né consumate da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità delle interazioni con gli altri e possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità.

I prodotti tipici dei soggetti operanti nel terzo settore sono beni e/o servizi di tipo relazionale: un bene o servizio viene definito di tipo relazionale quando implica una condivisione, cioè quando può essere sia prodotto che fruito insieme da coloro che ne sono i produttori e i fruitori, attraverso appunto lo svolgersi della relazione che lega i due soggetti; il bene è definito così relazionale per il fatto che implica una relazione. I beni o servizi relazionali possiedono un’alta utilità sociale, e vengono erogati nell’interesse e a favore della collettività; non possono quindi essere suscettibili di una valutazione economica, ma il loro valore è determinato dall’intensità della relazione umana che il volontario riesce ad instaurare con il destinatario della sua azione. Questa relazione che si viene così a creare è ben sintetizzabile con la frase “Si dà, ma in contemporanea si riceve”, volta proprio ad esprimere come l’operatore svolga un’azione di gratuità e ne riceva in cambio, oltre a un senso di appagamento a livello personale, anche un riconoscimento da parte del destinatario della sua azione. Tali organizzazioni di terzo settore sono facilitati nell'offerta di questa tipologia di beni a contenuto relazionale, in quanto per la loro realizzazione è strettamente necessaria una componente umana, forti motivazioni da parte degli operatori impegnati, un forte legame con la comunità locale ed un elevato radicamento territoriale, il tutto in grado di garantire rapporti tra operatori e fruitori ad elevata connotazione fiduciaria. ( Andrea Balla) Diversa ancora è la posizione di Martha Nussbaum, filosofa di formazione neo-aristotelica. Secondo Luigino Bruni, per la filosofa americana i beni relazionali sono quelle esperienze umane dove è il rapporto in sé a costituire il bene; la relazione inter-soggettiva, quindi, non è un qualcosa che esiste indipendentemente dal bene che si produce e/o si consuma. La differenza dunque tra i beni relazionali in senso stretto e i beni nei quali la qualità della relazione che si instaura tra i contraenti è una caratteristica importante del bene e del suo valore (come in molti servizi alla persona), risiede nel fatto che nei beni relazionali è la relazione in sé a costituire il bene economico: sono «beni di relazione», la relazione è il bene e non strumento per o funzionale allo scambio economico. Dunque secondo il modello relazionale il capitale sociale si configura come un particolare bene relazionale che compare al di là dell’individuo e della collettività, fatto di relazioni costruite mediante l’interazione. In tal senso i beni relazionali escono dal campo strettamente teorico e diventano uno strumento operativo per progettare interventi nel sociale, in cui la costruzione di capitale sociale è basilare per la coesione e l’inclusione di soggetti svantaggiati e in difficoltà.
A cura di Gabriella Dragani




domenica 27 ottobre 2013

LMM: LAST MINUTE MARKET


Last minute market: il Km zero dello spreco

Nella cultura contadina, era pratica comune non racimolare tutto il raccolto ma lasciarne una minima porzione a terra per i contadini, i passanti e i bisognosi. Fino a qualche anno fa lo scarto era considerato rifiuto, un rifiuto non accettabile. Anche solo il termine aveva spesso il ruolo di echeggiare mondi di esclusione e di rifiuto: “lo scarto della società”, “essere scartati da qualcuno”.
La parola “scarto” dunque è andata a occupare territori che hanno a che fare con la dignità personale, con la scala sociale fino a diventare un tabù. Nell'era del consumismo più sfrenato ecco che lo scarto è qualcosa che si attacca anche alle cose ancora funzionali, idonee a svolgere il proprio ruolo, ma il consumo senza limiti, l'inseguire “il trendy” come l'unica icona o valore sociale ci ha trascinato a rincorrere il più nuovo, più bello, più buono, più bianco, più colorato e lo scarto ha perso ogni attrattiva diventando prima “rifiuto” e poi sempre più “spreco”.
Ogni giorno in Italia vengono gettate in discarica 4000 tonnellate di alimenti ancora perfettamente commestibili e così pasta e pane per il 15%, carne per il 18% e il 12% di frutta e verdura. In pratica in un anno vengono sprecati alimenti per 1,5 milioni di tonnellate. I luoghi dove tutto ciò accade in modo evidente sono i negozi alimentari della grande distribuzione. Per capire meglio è sufficiente fare la spesa in un normale tardo pomeriggio e osservare come gli scaffali della panetteria, dei latticini, della carne, del pesce, delle verdure sono ancora. Prodotti che il giorno dopo non posso essere negli scaffali perché il consumo a tutti i costi ci impone che il pane sia sempre fresco, la carne appena tagliata e lo yogurt con scadenza non ravvicinata.
Dove va a finire tutto quello scarto che appena esce dal supermercato diventa subito spreco? Verso le discariche. Ma perché non recuperarlo, perché non regalare cibo in scadenza o non “esteticamente bello” - come per esempio lo scatolame di legumi imperfetto - a persone, associazioni, enti che possono trasformare “lo spreco” in risorsa? C’è qualcuno però che ha pensato: parliamo di un gruppo di ricercatori della Facoltà di Agraria dell'Università di Bologna che, guidati dal Prof. Andrea Segré, ha iniziato a studiare la possibilità di gestire in modo diverso il processo di distribuzione del cibo e a pensare che il ciclo di vita di un prodotto non debba per forza fermarsi alla fine del primo stadio di consumo, ma possa essere prolungato. Da questa intuizione è nato il Last Minute Market, un’idea diventata ormai una start-up con iniziative attive in tutta Italia.
Dice il prof. Segré: “Last significa ultimo, ma con un doppio senso: l’ultimo minuto perché dobbiamo fare in fretta, i prodotti scadono, sono danneggiati, li dobbiamo consumare presto, ma ultimo anche perché i beneficiari sono gli ultimi della società.” Il meccanismo virtuoso studiato dal Last Minute Market mette in collegamento l’impresa che vuole donare il prodotto con le Associazioni no profit che lo possono ricevere per fornire pasti a persone in condizioni di disagio economico o sociale. I primi ci guadagnano perché non devono sobbarcarsi i costi di trasporto e smaltimento, i secondi perché non devono acquistare la materia prima pur potendo assicurare alimenti validi e buoni.
E’ una soluzione win win in cui entrambi gli attori in campo vincono. E non solo loro. Se pensiamo che ogni tonnellata di rifiuti alimentari genera 4,2 tonnellate di CO2 è facile capire come il prolungamento della filiera produttiva equivale anche a un grosso sconto sui costi dell’ambiente e sui costi della collettività. Il progetto quindi si è ancorato al decreto Ronchi che trasforma la tassa sui rifiuti in tariffa di igiene ambientale, facendo pagare non in base alla superficie degli esercizi ma in base alle quantità smaltite, e così è stato possibile applicare degli sconti a quei dettaglianti che recuperavano il cibo invece di gettarlo.
Per lottare contro lo spreco – prosegue Andrea Segré – bisogna promuovere un’azione di sviluppo auto-sostenibile a livello locale che sfrutta la prossimità riducendo lo spazio e il tempo in modo che siano evidenti i benefici diretti e indiretti di quest’azione e le sue ricadute positive ”. In pratica si raccoglie e si consuma sempre in una zona ristretta di territorio ed entro un raggio di pochi chilometri in modo da non avere costi di conservazione e di trasporto, abbattendo l’impatto che questi hanno sull’ambiente. L’obiettivo del Last Minute Market è culturale. Portare agli occhi della gente lo scarto, quantificare lo spreco, valorizzarlo in termini di costi significa spesso creare le condizioni per diminuirlo.
Come dice Andrea Segrè, però, questo non basta. “Dobbiamo agire a monte prima dello spreco”. Esiste infatti un concetto di sufficienza che nel tempo la società ha perso per strada a favore del concetto di accumulo: lì in quel luogo dove “più non è uguale a meglio” sta un nuovo modello eco-nomico ed eco-logico che riduce la propensione al consumo senza modificare il livello di benessere.
a cura di Gabriella Dragani 









domenica 6 ottobre 2013

Volontariato e personale dipendente. Risponde l'avvocato.


Come organizzazione di volontariato possiamo assumere personale dipendente o avvalerci di prestazioni di lavoro autonomo?

L'art. 3 comma 4 della Legge 266/91 stabilisce che “L’OdV iscritta può assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al suo regolare funzionamento oppure al fine di qualificare e specializzare l’attività svolta” (art 3 comma 4 L. 266/91), e “non per l’esercizio di attività di solidarietà” e ciò significa che in una OdV iscritta:
• l’attività di volontariato deve essere comunque prevalente rispetto a quella di lavoro retribuito, sotto il profilo tanto quantitativo tanto qualitativo (cd. principio di prevalenza);
• i soci/volontari non possono essere assunti e/o retribuiti, poiché l’attività di volontariato è “incompatibile con qualsiasi forma di lavoro autonomo o subordinato o con ogni altro rapporto avente contenuto patrimoniale”, e “non può essere retribuita in alcun modo, nemmeno dal beneficiario”, ed è ammessa solo la possibilità di rimborsare il volontario delle spese effettivamente sostenute e documentate (cd. principio di gratuità, art. 2, comma 2 e 3 L. 266/91).
I rapporti di lavoro che le OdV possono instaurare con i lavoratori sono:
a) rapporto di lavoro subordinato (es. impiegati, segretarie, ecc.);
b) rapporto/contratto a progetto (cd. lavoro “parasubordinato” o Co.Co.Co.);
c) rapporto di lavoro occasionale;
d) rapporto di lavoro autonomo. In ordine alla disciplina applicabile a questi rapporti, l’OdV è (salvo alcune limitatissime eccezioni) del tutto assimilabile ad un normale datore di lavoro e deve quindi essere svolgere tutti gli adempimenti previsti di volta in volta dalla normativa del lavoro, fiscale e previdenziale (es. apertura posizione Inps e Inail e pagamento relativi contributi, tenuta libro paghe e matricola, adempimenti relativi a ritenute IRPEF ed INPS, redazione mod. 770, rilascio Cud, ecc.).
Ma vediamo le tipologie di rapporto e le loro caratteristiche:
collaborazione occasionale: è la forma di lavoro maggiormente utilizzata e che viene definita come attività di lavoro autonomo non esercitata in via abituale (art. 67, 1° comma, lett. L, TUIR), non continuativo (non può durare più di 30 giorni lavorativi per anno solare per ciascun committente/OdV), e presuppone l’assenza di coordinamento o direzione con la struttura del committente (il lavoratore occasionale utilizza propri mezzi).
La collaborazione occasionale, consiste, in sostanza, in una attività episodica, non soggetta a ripetizione in un arco di tempo ragionevole (es. volantinaggio, consegna di pacchi o biglietti
natalizi, raccolta quote sociali, vendita biglietti di una pesca di beneficenza o di una
manifestazione, ecc., elaborazione di un progetto, ecc.). La qualifica di lavoratore occasionale non è configurata rispetto all’importo del compenso ricevuto, tuttavia, se il compenso supera € 5.000 per anno solare, il lavoratore deve comunicare al committente il raggiungimento di tale limite, sarà iscritto alla gestione separata Inps dei collaboratori coordinati e continuativi e il committente/OdV dovrà versare i relativi contributi (art 44 del D.L. 269/2003). In questo tipo di rapporto i compensi erogati sono, dal punto di vista fiscale, “redditi diversi” e sono soggetti alla ritenuta d’acconto del 20% (art 67 lett. L TUIR).
lavoro a progetto : (art. 61 e seg. D.Lgs. 276/03) è una forma particolare di lavoro cd. “parasubordinato”, nel quale il lavoratore non è soggetto al vincolo gerarchico con il datore di lavoro, ha flessibilità di orario, non è totalmente inserito nella struttura del committente ma vi si coordina, ed è impiegato per la realizzazione di un progetto e quindi di un risultato specifico (es. realizzazione di un progetto finanziato da ente pubblico, lavoro di ricerca o studio, collaborazione per attività educative, sociali e di animazione senza un rigido orario, ecc.). La redazione di un progetto scritto è importante perché in sua assenza il rapporto si tramuta automaticamente in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Dal punto di vista contributivo i compensi erogati sono soggetti a contributo INPS del 18% da porre a carico per 1/3 al lavoratore e per 2/3 a carico del committente/OdV. In questo tipo di rapporto i compensi erogati sono “equiparati a reddito da lavoro dipendente” quindi il committente/OdV dovrà effettuare le trattenute fiscali , effettuare il conguaglio fiscale e tutti gli adempimenti di legge in carico al sostituto d’imposta. (modello Cud, 770). L’associazione può avvalersi anche di prestazioni di professionisti con partiva Iva, e cioè di prestazioni di lavoro autonomo. Con lavoratore autonomo si intende un soggetto che si obbliga a compiere verso corrispettivo un’opera (servizio) con lavoro e rischio proprio, senza vincolo di subordinazione, senza alcun vincolo di orario nei confronti di un committente, e con l’obbligo di un risultato (es. professionista, commercialista, avvocato, idraulico, giardiniere, ecc.). In questo caso il lavoratore autonomo, titolare di partita Iva, presenterà regolare fattura e non vi sono ulteriori oneri per contributi e tasse.

A cura dell'avv. Luigi Marrazzo

venerdì 4 ottobre 2013


Non sei tu il mare? E allora rispondimi!


Mare, dentro di te sta il mio amore.
Hai preso la sua anima e il suo cuore.
Mare, riportala a riva, fammi parlare di nuovo con lei.
Cercala ovunque, trovala, fallo per me.
Mare riportami l’amore della mia anima
Insieme ai suoi compagni pellegrini di questo destino.
Creature del mare, siete voi gli unici testimoni di questa storia
E allora ditemi: quali sono state le sue ultime parole prima di partire
Mare!
Non sei tu il mare? E allora rispondimi!

Tesfay Mehari -


da: www.yallaitalia.it
a tutte le donne e a tutti gli uomini che hanno attraversato il mare e non sono riusciti a vedere  l'altra sponda. 

mercoledì 2 ottobre 2013

Settimana Vegetariana Mondiale


Vegetarian Week. 

E' iniziata ieri, la sesta edizione della Settimana Vegetariana Mondiale 2013, evento annuale dedicato al mondo veg che continua a crescere inesorabilmente anche in Italia. Nel Bel Paese si parla di un totale quindi di 5-6 milioni di italiani che rifiutano di cibarsi di animali; di questi l'1% è  vegan, esclude cioè ogni tipo di prodotto animale come latte, uova, miele, seta, ecc. Seguono Inghilterra con il 9%, la Germania con l'8%, l'Irlanda con il 6%, per arrivare ai fanalini di coda: 2%  per Francia, Repubblica Ceca, Belgio, Portogallo, Norvegia e l'1% per Polonia, Slovacchia e  Danimarca. Percentuali relativamente basse, ma in evidente aumento tanto che, sempre secondo Eurispes, nel 2050 i vegetariani in Italia arriveranno a 30 milioni.

Lo scopo dell'evento, allora, è quello di informare sempre più persone "sulla scelta di escludere ogni ingrediente di origine animale dalla nostra alimentazione e da tutto il resto della nostra vita", come spiega Agire Ora, presentando le attività che si svolgeranno nel nostro paese. 

L'idea, che viene nel 2008 a un gruppo di attivisti provenienti da vari Paesi, si tradurrà anche da noi in appuntamenti, dibattiti, manifestazioni, sit-in e, immancabilmente degustazioni di cibi vegetali,  dal tofu al seitan, passando per dolci, formaggi o affettati veg, che si susseguiranno fino al 06 ottobre.