martedì 25 novembre 2014

C'è una domanda che non trova risposta.

C’è una domanda che non trova risposta. Perché in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, spesso compagni o ex compagni di anni di vita, padri di figli cresciuti insieme? «Come si fa ad ammazzare una ragazza per un litigio?», chiedeva il papà di Vanessa Scialfa, la giovane di Enna vittima a primavera, appena ventenne, del suo convivente. E c’è una seconda domanda che ci disorienta. Perché una donna — adulta, libera — al primo spintone, o anche alle prime parole selvagge, non allontana da sé per sempre l’uomo che la sta minacciando? Gli resta invece accanto, preferisce ripetersi «non sta succedendo a me» e prepararsi il giorno dopo a dire ai figli — poi ai colleghi, agli amici — che non è niente, che ha di nuovo sbattuto contro la porta.

La verità è che qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo. Rivela che quella relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra; ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna. Il potere maschile resta intrecciato all’ordine sociale e continua a lavorare «nell’oscurità dei corpi»: squilibra i rapporti e i ruoli, presidia la cultura e il linguaggio, cerca di riaffermarsi nelle scuole e nelle famiglie.

La «violenza domestica» — quella subita dagli uomini di casa, anche padri o fratelli — è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni: più degli incidenti stradali, più delle malattie. Per questo dobbiamo subitoliberarci dell’idea del mostro, o di tanti mostri, dobbiamo sottrarci a quella reazione immediata che ci porta a dire: io non sono così, noi siamo normali. La violenza sulle donne, che in alcuni casi si spinge fino all’omicidio definito per la prima volta «femminicidio» da una sentenza del 2009, non è una collezione di fatti privati: è una tragedia che parla a tutti. Soprattutto, che riguarda tutti gli uomini. Ora noi sappiamo che non sarà un appello, una nuova Carta dei diritti, non saranno uno spettacolo, un documentario, un’inchiesta o un libro a fermare la strage delle donne; neanche le migliori leggi — pur necessarie — basteranno.

Eppure parlarne, scrivere, raccontare le storie, trovarsi numerosi in questa domenica di fine novembre, muoversi insieme, donne e uomini, andare nei teatri o nelle strade con un pensiero comune anti-violenza: tutto questo è un passo importante per capire. E capirci qualcosa aiuta noi a superare quel senso di turbata estraneità che ci prende davanti ai fatti di cronaca e aiuta magari le vittime, almeno alcune tra loro, a scuotersi e salvarsi in tempo.
Oggi la Convenzione «No More!» — che nelle ultime settimane ha raccolto migliaia di adesioni tra organizzazioni e persone molto diverse tra loro — sarà portata nelle piazze. E’ il punto di arrivo di un impegno civile diffuso che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto e incoraggiato. In questa giornata, sarebbe già un conforto poter pensare che il silenzio è rotto. Femminicidio non è una bella parola, è vero, ma stiamo imparando a pronunciarla per dare finalmente un nome, che suona antico e non lo è affatto, all’uccisione delle donne perché donne.
Dalla 27 ora.it

giovedì 20 novembre 2014

20 Novembre – Giornata internazionale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza

Il 20 Novembre, come tutti gli anni, si celebra la Giornata mondiale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, data in cui la Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia venne approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, nel 1989.
 
La Convenzione ha avuto come scopo quello di garantire importanti diritti universalmente riconosciuti anche ai bambini, sradicando l'idea del bambino come oggetto dedito esclusivamente a tutela e protezione. In particolare, sono stati garantiti il diritto al nome, alla sopravvivenza, alla salute e all'educazione, alla dignità e alla libertà di espressione. La ratifica del trattato consentì di raggiungere notevoli risultati, come la cessazione delle punizioni corporali, la creazione di più potenti ed efficaci sistemi di giustizia minorili, distinti e separati dalla consueta legislazione degli adulti.
 
Ma attualmente questi diritti vengono effettivamente rispettati?
 
Certo è che l'attuale situazione politica, economica e sociale non aiuta. La crisi economica e lavorativa, le difficoltà a cui vanno incontro giornalmente le famiglie sono tutti fattori che inevitabilmente toccano e impattano anche quella che dovrebbe essere l'innocente e spensierata vita quotidiana di bambini e bambine. E i dati ce lo dimostrano. Nel mondo circa 50 milioni di bambini tra i 6 e i 15 anni non hanno accesso all'educazione di base, secondo le stime di Save The Children e di Education for All Global Monitoring Report dell'Unesco. Questi numeri sono ancora più evidenti nei paesi dilaniati da guerre e distruzioni.
 
Indipendentemente dall'età, i bambini sentono il disagio e ne vengono segnati. Essi possono essere considerati come argilla fresca: continuamente in evoluzione verso il loro futuro e verso la loro forma definitiva, ogni impronta lascia il segno e influenza il loro sviluppo. E a tal proposito diviene quasi d'obbligo citare Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace. La giovane attivista pakistana si è battuta e si batte tutt'ora per garantire i diritti civili ed in particolare il diritto all'istruzione delle donne del suo Paese e di tutti i bambini del mondo. Ciò a riprova del fatto che non importa l'età o la maturità: i disagi minorili sono forti e tutti ne risentono, minori compresi. Proteggere i più piccoli nel miglior modo possibile è tutt'oggi una delle sfide più ardue e allo stesso tempo delicate, poiché, con la loro infinita sensibilità, i bambini percepiscono per primi i disagi, le discriminazioni e le sofferenze, sia circoscritte al proprio nucleo familiare sia relative alla situazione dell'intero Paese.
 
Oltre il dato educativo altri sono le statistiche che rendono la situazione ancora più drammatica. Infatti secondo il rapporto di Save The Children sullo sfruttamento minorile al mondo sono circa 5,5 milioni i "piccoli schiavi invisibili" impiegati in tutti i settori lavorativi esistenti, dall'agricoltura ai servizi, e tra loro anche vittime di tratta ai fini dello sfruttamento sessuale. In Europa il maggior numero di vittime accertate e presunte è stato segnalato in Italia, pari a quasi 2.400 nel 2010, con un calo rispetto ai 2.421 del 2009 ma un notevole aumento rispetto ai 1.624 del 2008. Nel 2014, sono stati riscontrati un numero sempre crescente di minori arrivati nel nostro Paese:  2.737 sono i non accompagnati eritrei arrivati in Italia dall’1 gennaio al 31 luglio 2014: dieci volte di più rispetto a quelli arrivati nello stesso periodo nell’anno precedente (242). E questo numero è in continuo aumento, assieme a quello di minori di nazionalità afgana. Questi, una volta qui sono ad altissimo rischio di sfruttamento.
 
Al primo posto tra le emigrazioni risultano, tuttavia, le adolescenti nigeriane, le quali sono maggiormente coinvolte nella tratta di esseri umani per scopi sessuali. Nel dossier 2014 si conferma inoltre che quello delle minori adolescenti provenienti dai paesi dell’Est Europa è in crescente aumento nel fenomeno della  tratta a scopo di sfruttamento sessuale in Italia. Lo sfruttamento avviene sia in strada che al chiuso, sotto il controllo di uomini che ne governano le promiscue relazioni sociali e abitative. Secondo il rapporto di ECPAT le minori sfruttate vengono "educate" a percepire i favori sessuali come un dovere, facendole sentire di proprietà dei loro protettori. E all'interno di questo contesto, stanno aumentando in maniera esponenziale i casi di spose bambine. Le adolescenti Siriane rifugiatesi in Giordania hanno contratto il matrimonio in età prematura nel 48% dei casi, con uomini di dieci anni più grandi se non di più. La grande differenza di età non fa che aumentare il rischio di violenze, abusi e sfruttamento. Inoltre, al matrimonio precoce seguono anche l'inevitabile abbandono scolastico e gravidanze altrettanto precoci, pericolose tanto per le neo-mamme quanto per i nascituri, come sostenuto da UNICEF nel suo rapporto sulla protezione dei diritti dell'infanzia, da cui emerge che circa 70 milioni di ragazze si sono sposate in età minorile.
 
Infine, ma non per importanza, è degno di nota il fenomeno ormai fin troppo diffuso dei bambini soldato, una delle più pesanti violazioni dei diritti umani e dell'infanzia. Il paese con più casi è l'Africa, considerata l'epicentro della cosa. Le Nazioni Unite stimano che nella guerra in Liberia abbiano combattuto all'incirca 20.000 bambini, circa il 70 % dei soldati attivi nelle varie fazioni. Idem il Sudan, che conta tra 100 mila bambini che prestano servizio su entrambi i fronti di una guerra che dura da più di vent'anni. Ma il fenomeno dei bambini soldato è presente anche il Medio Oriente (Algeria, Azerbaijan, Egitto, Iran, Iraq, Libano, Tagikistan, Yemen) e America del Sud (Colombia, Equador, El Slavador, Guatemala, Messico (Chapas), Nicaragua, Paraguay e Perù). Non è raro inoltre che, come riportato dalle ricerche sul caso svolte sempre da UNICEF, i bambini si arruolano più per necessità che per costrizione: vivendo in veri e propri campi di battaglia, si sentono più al sicuro all'interno di un qualche battaglione di soldati e armati.
 
Finché tali fenomeni continueranno ad esistere, vi saranno ancora bambini a cui verrà negato il diritto di godere dell'infanzia, uno dei periodi più importanti ed imprescindibili nella vita di ognuno.
 
Garantire che i diritti sanciti dalla Convenzione siano rispettati quindi è tanto nell'interesse dei bambini quanto nel nostro: sono questi ultimi che rappresentano il futuro ed è necessario partire da loro per garantirne uno migliore e soddisfacente per tutti.
E in un mondo sempre più globalizzato e multiculturale è importante che tutti abbiano gli stessi diritti e che le differenze vengano appianate. Difficilmente un bambino percepisce un suo coetaneo come diverso: nella sua naturalezza e genuinità tutti siamo uguali, non importa la razza, la lingua o le tradizioni. Ed è importante che non vengano perpetuate quelle opinioni che hanno caratterizzato e diviso popoli e Paesi per troppo tempo.
 
I bambini hanno tanto da imparare da noi, ma anche noi abbiamo tanto da imparare da loro.
 

Laura Montorselli

L’esperienza di “Paperboy”: diversamente abili alla scrittura e la testata che richiama il videogames

SALERNO- «Io scrivo per me, per togliermi un poco di dolore che avevo dentro al cuore, non avevo nessuno che mi capisse, avevo la scrittura». Così Annamaria Sersante, 22 anni studentessa di editoria e pubblicistica, racconta la sua esperienza a “Paperboy”, unica testata giornalistica in Italia realizzata da persone diversamente abili; nata a Salerno nel dicembre del 2013, progetto pilota del “Laboratorio Giornalistico Sociale” a cura della Cooperativa Sociale “Il Villaggio di Esteban”e dell’Associazione Culturale “Giovamente”. La redazione di Paperboy, la sede è offerta dai servizi sociali, è composta da 15 ragazzi ospiti quasi esclusivamente delle cooperative e delle associazioni coinvolte nel progetto (ragazzi disabili, autistici, ospiti delle case famiglie, ecc), accomunati dalla passione per il giornalismo, ma anche desiderosi di affrontare un’esperienza formativa che dia loro una futura occasione di realizzazione. «La cosa bella di questa iniziativa è che prende vita, già in partenza, in maniera diversa, sottolinea Umberto Adinolfi, giornalista professionista e direttore di Paperboy – . Oltre a formare i ragazzi con basi di storia del giornalismo, deontologia, tecniche di impaginazione, dà loro la possibilità di avere in futuro uno sbocco professionale, oltre che una soddisfazione a livello reddituale. Tutto nasce, cresce e resta nelle loro mani e quando tra due anni, al termine del praticantato, saranno pubblicisti, sceglieremo tra loro il nuovo direttore».
Sono davvero “diversamente speciali” ,come dice il direttore, i ragazzi, parte di un gruppo affiatato che si riunisce tre volte a settimana occupandosi della pagina web del mensile, del lavoro di redazione con uno psicologo che li assiste nel coordinare il gruppo e della teoria e tecnica giornalistica. «Urlano la loro situazione nel silenzio generale del mondo della comunicazione e del giornalismo- continua il direttore- come lo strillone del famoso videogioco dal quale prende il nome questa realtà». Luca Boffa urla il suo amore per il cinema, per il Canada e quel viaggio che vuole tanto fare; Titti La Marca il suo desiderio che si creino nuove occasioni per i disabili, perché dice che ce ne sono poche; Matteo Vicinanza la gioia dello stare insieme ad altri ragazzi; Carmine Cristiano la sua ambizione di diventare un giornalista importante, nonostante tenga il capo chino, la scrittura questo non lo nota. Annamaria torna a dire che vuole liberare i suoi elaborati dalla cartella del computer e che da grande vuole scrivere un libro di poesie per bambini perché «la felicità è importante averla dentro per averla fuori» dice. Per ora “Paperboy”, mensile composto da sedici pagine  che si occupa di cronaca, politica, attualità e terzo settore, si sostiene grazie agli abbonamenti, circa 200, (con un costo di 20 euro l’anno deducibili, interamente reinvestiti nella redazione), l’obbiettivo è quello di ingrandirsi,molte le richieste di partecipazione anche dalla scuole cittadine e riuscire a realizzare un laboratorio di prodotti per l’editoria, dal volantino alla carta intestata, in modo da rendere i ragazzi autonomi e dei professionisti qualificati dell’informazione.
di Sara Botte


domenica 16 novembre 2014

Postoccupato.

È un gesto concreto dedicato a tutte le donne vittime di violenza. Ciascuna di quelle donne, prima che un marito, un ex, un amante, uno sconosciuto decidesse di porre fine alla sua vita, occupava un posto a teatro, sul tram, a scuola, in metropolitana, nella società. Questo posto è riservato  a loro, affinché la quotidianità non  sommerga quanto avvenuto.


Si occupa un posto in un cinema, un teatro, un treno, sulla metro o a scuola, per lasciare un segno della nostra presenza: con un giornale, una borsa, un mazzo di chiavi, un cappello. "Quel posto è mio, tornerò ad occuparlo". Per molte, troppe donne, non sarà più così. POSTO OCCUPATO è un’idea, un dolore, un pensiero, una reazione che ha cominciato a prendere forma man mano che i numeri crescevano e cresceva l’indignazione di fronte alla notizia dell’ennesima donna assassinata. Ciascuna di quelle donne, prima che un marito, un ex, un amante, uno sconosciuto decidesse di porre fine alla sua vita, occupava un posto nella società, sul tram, a scuola, in metropolitana. Quel posto vogliamo riservarlo a loro, affinché la quotidianità  sommerga il dolore, l'assenza, il vuoto, per simbolizzare un’assenza che avrebbe dovuto essere presenza se non ci fosse stato l’incrocio fatale con un uomo che ha manifestato la sua bestialità, ammantandola di un “amore” che altro non è che disprezzo. Con un definitivo e ultimo gesto per sancire un presunto diritto di proprietà. POSTO OCCUPATO è partito il 29 giugno dall’anfiteatro della villa Comunale di Rometta (Messina), luogo di nascita di Maria Andaloro, editore della rivista online “La Grande Testata” e ideatrice del progetto. La prima fila dell’anfiteatro è stata occupata da un paio di scarpe rosse, da un mazzo di chiavi, da una borsa, lì cristallizzati a testimonianza di un delitto. La speranza di POSTO OCCUPATO è che il “contagio” si estenda anche alle altre città italiane, e che le Istituzioni, i Comuni, i Servizi di ogni genere e i luoghi di aggregazione sociale raccolgano l’invito a riservare un “posto” in memoria delle donne vittime di ogni forma di violenza. E che questa assenza urlasse la mostruosità del suo perché. Questa iniziativa si rivolge ai singoli cittadini così come alle Istituzioni, le Associazioni e agli Enti di ogni genere, che possono manifestare il loro sostegno con una semplice firma o in tutti i modi che riterranno opportuno. Vi invitiamo a inviare foto, comunicati, attestazione di adesione, che verranno di volta in volta pubblicati sul sito: www.postoccupato.org




mercoledì 12 novembre 2014

Un campo di volontariato per costruire la biblioteca di Lampedusa

La sezione italiana di Ibby, associazione fondata nel dopoguerra in Germania, concluderà dal 15 al 22 novembre una raccolta di libri e un campo di lavoro per dotare l’isola di una struttura per bambini e ragazzi



Da due anni Ibby Italia sta lavorando per la costruzione di una biblioteca per i bambini e i ragazzi di Lampedusa, un servizio sino ad oggi inesistente sull'isola. A breve un nuovo campo di lavoro porterà un gruppo di volontari a contribuire in loco alla realizzazione di questo sogno "Per i mille bambini che popolano l'isola è un diritto avere una biblioteca a disposizione" spiega Deborah Soria, tra le volontarie di Ibby Italia impegnate nel progetto di cooperazione internazionale “Libri senza parole. Dal mondo a Lampedusa e ritorno”. Il programma prevede una raccolta di libri e una serie di campi di lavoro sull'isola, l'ultimo dei quali avrà luogo dal 15 al 22 novembre prossimo. La storia di Ibby è affascinante: l'associazione internazionale è stata affondata dalla tedesca Jella Lepman, ingaggiata nel dopoguerra dall’esercito americano come “esperta dei bisogni culturali ed educativi delle donne e dei bambini dell’area americana”. La Lepman pensò di ripartire dai libri, eliminati quasi del tutto sotto la dittatura nazista, e iniziò proprio dalla letteratura per i bambini, perchè “saranno i più piccoli che mostreranno poi agli adulti la via da percorrere”. Dando seguito alle idee della sua fondatrice, Ibby continua a portare i libri lì dove non ce ne sono, per sfamare le menti e creare ponti tra culture. Secondo il Rapporto sulla promozione della lettura in Italia 2013, curato dal Forum del libro, nel 2012 soltanto il 46% degli italiani ha letto almeno un libro, contro l’82% della Germania, il 70% della Francia e il 61,4% in Spagna; una famiglia su dieci non ha neanche un libro a casa e i comuni che non hanno nè biblioteche nè librerie sono numerosi.

















domenica 9 novembre 2014

Weapon of Choice: il potere distruttivo delle parole


Weapon of Choice” è un progetto fotografico, nato con l’obiettivo di mostrare “le cicatrici” conseguenti ad abusi verbali, soprattutto nei confronti dei giovanissimi. “Parole che diventano armi”.  Le immagini, scattate dal fotografo americano Richard Johnson, e pubblicate sul sitohurtwords.comdescrivono perfettamente il dolore, le ferite che ciascuno di noi può provare in tutti i casi di violenza verbale.


© Copyright: Richard Johnson/Weapon of Choice (www.hurtwords.com/)
Al progetto hanno partecipato molti bambini, cui è stata spiegata la finalità: così, all’interno di una lista, gli stessi hanno scelto le parole ritenute più offensive. La peggiore secondo i piccoli intervistati? “Stupido”. A pensarci bene, questo termine è pronunciato molto spesso, anche tra gli adulti, e quasi con leggerezza ormai: non viene dato più molto peso al reale significato. Ogni persona, però, ha la sua sensibilità e ciò che a me può sembrare “ironia”, non è detto che lo sia anche per gli altri.A parte il fatto che certe affermazioni, certi “nomignoli”, non hanno proprio nulla di ironico. Mai. E di situazioni spiacevoli potremmo citarne tante.

Proprio in questi giorni, purtroppo, siamo diventati spettatori mediatici di un altro crudele episodio di bullismo: un mix di aggressività, fisica e verbale. Il progetto Weapon of Choice ci dimostra che non esiste poi grande differenza, soprattutto quando è presente la volontà.

Una parola, un tono di voce, un gesto, possono essere distruttivi quanto più il soggetto attivo è consapevole delle sue azioni. Ho seguito alcuni dibattiti televisivi e alcuni commenti di cittadini comuni. Ho sentito dire “banale”, “scherzo”, “ragazzata”. Ho visto giustificare l’ingiustificabile.

Sentire certe considerazioni  è  avvilente. Immaginiamo, quindi, le sensazioni dei diretti interessati.
Torniamo a dare a gesti e parole il giusto valore. Smettiamola di ridicolizzare, insabbiare, semplificare sempre tutto: far finta di non vedere appesantisce il cuore.
E certe frasi, a lungo andare, diventano cicatrici dell’anima. 

www.hurtwords.com/

mercoledì 29 ottobre 2014

Reyhaneh, lettera alla madre.

Pubblichiamo la lettera di   Reyhaneh   alla madre. La redazione del blog di Be Equal ha scelto di non scrivere commenti nè di pubblicare foto a lato del testo. 


«Cara mamma,
oggi ho scoperto che è arrivato il mio momento di affrontare la Qisas (la legge del taglione in Iran, ndr). Mi fa male pensare che tu non mi abbia informato che ero arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di mio padre? 
Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella notte terribile sarei dovuta essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portato all’obitorio per identificarmi e solo in quel momento avresti capito che sono anche stata stuprata
Non avrebbero mai trovato l’assassino visto che non siamo ricchi come lui. Tu avresti vissuto soffrendo e vergognandoti e saresti morta per colpa di questo dolore.
Con quel "maledetto colpo" la mia vita è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato da nessuna parte, ma nella tomba della prigione di Evin e della sua sezione di isolamento. Poi in quella di Shahr-e Ray. Ma arrenditi al destino e non lamentarti: tu sai bene che la morte non è la fineProprio tu mi hai insegnato che si vive per fare esperienze e imparare. Ogni persona che nasce ha sulle spalle una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna lottare.
Mi ricordo quando mi hai detto che l’uomo che guidava la carrozza ha protestato contro l’uomo che mi stava fustigando, ma poi mi hai detto che lui l’ha colpito con la frusta in testa e in faccia, ed è morto. Mi hai insegnato che se uno crede in un valore ci deve credere fino alla morte.
Quando andavo a scuola mi hai insegnato che dovevo sempre comportarmi “come una signora” davanti alle discussioni e alle lamentele. Ti ricordi quanto ci tenevi a questa cosa? Questo tuo insegnamento è sbagliato. Quando mi è successo questo incidente, il tuo insegnamento non mi è stato d’aiuto. Come mi sono presentata davanti alla corte mi ha fatto sembrare un’assassina fredda e premeditatrice. Come mi hai insegnato tu non ho pianto, non ho implorato perché credevo nella legge.
Ma sono stata anche accusata  della mia indifferenza davanti a un crimine. Tu lo sai, io non ho mai ucciso neanche una zanzara, per liberarmi dagli scarafaggi li sollevavo prendendoli dalle loro antenne. E ora sono diventata un’assassina volontaria. Il modo in cui trattavo gli animali è stato interpretato dal giudice come un comportamento maschile, ma non si è nemmeno preoccupato di notare che nel momento dell’incidente avevo lo smalto.
Che ottimista colui che crede nella giustizia. Il giudice non hai mai contestato il fatto che le mie mani non sono ruvide come quelle di uno sportivo, di un pugile. E questo Paese che amo grazie a te, non mi ha mai voluto. Nessuno mi ha sostenuto quando incalzata dagli inquirenti piangevo e gridavo per quei termini così volgari. Quando ho perso anche il mio ultimo segno di bellezza rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni di isolamento.
Cara mamma, non piangere per queste parole. Il primo giorno in cui alla stazione di polizia un agente vecchia zitella mi ha schiaffeggiato per le mie unghie, ho capito che la bellezza non è per quest’epoca. La bellezza di un corpo, dei pensieri, dei desideri, degli occhi, della bella scrittura e la bellezza di una voce. 
Cara mamma, i miei ideali sono cambiati e non è colpa tua. Le mie parole sono eterne e le affido a qualcuno così quando verrò impiccata da sola, senza di te, saranno date a te. Ti lascio queste parole scritte come eredità.
Comunque, prima della mia morte, vorrei qualcosa da te. Qualcosa che mi devi dare con tutte le tue forze. In realtà è l’unica cosa che voglio da questo mondo, da questo Paese e anche da te. Lo so che hai bisogno di tempo per questa cosa, ti prego non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e dica a tutti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dalla prigione perché il capo non l’approverebbe mai, soffrirai ancora per me. È una cosa per cui potrai anche implorare, anche se ti ho sempre detto di non implorare per la mia salvezza.
Mia dolce madre, l’unica che mi è cara più della vita, non voglio marcire sottoterraNon voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque cosa possa essere trapiantata venga data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il mio destinatario conosca il mio nome, o che mi compri un mazzo di fiori o che preghi per me. Dal profondo del mio cuore ti dico che non voglio una tomba su cui tu puoi piangere. Non voglio che tu ti vesta di nero, fai il possibile per dimenticare questi giorni difficili. Dammi al vento che mi porti via.
Il mondo non ci ama, non ha voluto che si compisse il mio destino. Mi arrendo a esso e accetto la morte. Di fronte al tribunale di Dio accuserò gli ispettori, accuserò i giudici della Corte Suprema che mi hanno picchiato e minacciato. Accuserò Dr. Farvandi, Qassem Shabani e tutti quelli che per colpa della loro ignoranza o delle loro bugie mi hanno messo in questa posizione e ucciso i miei diritti oscurando che a volte quello che sembra verità non lo è. Cara mamma dal cuore tenero, nell’altro mondo saremo io e te gli accusatori e gli altri gli accusati. Vedremo cosa vuole Dio. Vorrei abbracciarti fino alla morte. Ti amo,  Reyhaneh».

domenica 26 ottobre 2014

Reyhaneh.

«La mia Reyhaneh è stata impiccata. Aveva la febbre mentre danzava sul patibolo». Shole Pakravan piange così la figlia di 26 anni su Facebook, il giorno prima di accompagnare la bara al cimitero di Teheran.  «Domani alle 10 del mattino saluterò la sua salma…. Sono un soldato che ha perso il suo comandante e il suo amore, seduto sul mare senza fine della tristezza», continua Shole, un’attrice teatrale. E nelle sue parole riecheggiano i versi del poeta sufi Mansour Hallaj, un tempo anche lui finito sulla forca. Poco dopo, Shole risponde al telefono dalla sua casa di Teheran. «Il vero responsabile di tutto questo — dice al Corriere — è il potere giudiziario iraniano». Sua figlia Reyhaneh Jabbari, un’arredatrice di interni, è stata giustiziata ieri all’alba per l’omicidio di un medico ed ex funzionario dell’intelligence,  Mortaza Abdolali Sarbandi. Nel 2009 durante il processo, la ragazza aveva sostenuto  di averlo pugnalato per legittima difesa. Aveva raccontato di averlo conosciuto in un internet café: lui, sentendola parlare di lavoro, le si era avvicinato e le aveva offerto un impiego (arredare il suo ufficio); poi però l’aveva portata in un appartamento e aveva tentato di stuprarla; e lei l’aveva pugnalato con un coltello tascabile ed era fuggita. Reyhaneh  sosteneva che le ferite inflitte non avrebbero da sole potuto ucciderlo, e aveva additato come assassino  un misterioso terzo uomo di nome Sheikhy, giunto mentre lei scappava. Ma i giudici l’hanno giudicata colpevole di omicidio premeditato. Un processo cheAmnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani definiscono «viziato» — tra prove sparite, limitazioni a vedere l’avvocato, confessioni estorte in isolamento. C’è anche chi crede che il caso sia stato insabbiato proprio perché un uomo dell’intelligence era stato additato come stupratore. Per anni, la madre ha condiviso su Facebook l’attesa, la paura, la rabbia. È stato soprattutto grazie ai suoi messaggi  che è nata la campagna internazionale che chiedeva un nuovo processo, più equo. Una campagna cresciuta negli ultimi mesi, con l’appoggio di diversi artisti iraniani e un totale di 240.000 firme. Ma non è bastata a salvarla. L’ultima speranza era il perdono della famiglia dell’uomo ucciso: poteva rinunciare ad applicare la legge del taglione (qisas). Ma Jalal Sarbandi, il figlio, ha rifiutato. Era in piedi davanti alla forca ieri  con  due parenti, per far rispettare «il diritto di sangue» di suo padre. Molti commenti su Facebook si scagliavano contro di lui. Ma Shole spiega al telefono di non nutrire astio nei suoi confronti, di considerare responsabile il regime. Ha potuto dire  addio alla figlia venerdì, faccia a faccia,   ma non è stata ammessa all’esecuzione. Ha passato la notte con un’ottantina di sostenitori davanti al carcere, piangendo e chiedendo aiuto a Dio. Per due volte, in passato, la sentenza di morte contro Reyhaneh era stata sospesa: ad aprile e poi a fine settembre. «Mamma, devi lasciarmi andare, basta», l’aveva supplicata la figlia. Shole voleva ascoltarla, tanto che aveva scritto su Facebook: «Da oggi mi siederò in silenzio in un angolo. Non scriverò più nulla». Ma non poteva tacere, doveva cercare di salvarla.


venerdì 24 ottobre 2014

ORGANIZER! For all!

Giornata formativa “Organizer” nell'ambito del progetto “ Il volontariato cosentino, fra memoria e testimonianze”

Si terrà presso il CSV Cosenza, venerdì 31 ottobre dalle 15 alle 17.00, il corso di formazione rivolto alle organizzazioni di volontariato, alle associazioni del territorio ma anche ai volontari e ai tanti potenziali volontari che vorranno saperne di più sulla conservazione, fruibilità e valorizzazione della documentazione bibliografica e di archivio delle associazioni. Il corso, denominato “Organizer” è condotto dalla dott.ssa Giusi Ielitro del CSV Cosenza, ed è stato organizzato nell'ambito delle Map 2014 come percorso tematico all'interno del progetto “Il volontariato cosentino, fra memoria e testimonianze” dall'Anteas Cosenza, promotore dell'iniziativa e in collaborazione con il partneriato composto da Cif Comunale Cosenza, Alt, Be Equal. Il progetto articolato in varie fasi propone una giornata formativa allo scopo di facilitare le pratiche per la conservazione, la fruibilità, la valorizzazione della documentazione bibliografica e di archivio posseduta dalle associazioni e imparare a catalogare la rassegna stampa. Gestire correttamente la documentazione prodotta è fondamentale per conservare la memoria storica, favorire gli studi e la ricerca sui temi di cui le associazioni si occupano, rendendo disponibile un patrimonio documentario spesso unico ed originale. Imparare a catalogare, archiviare e rendere gestibile la documentazione storica del proprio ente agevola e facilita la progettazione e lo sviluppo delle attività delle associazioni, grazie alla conoscenza e allo studio di quello che è stato già realizzato nel passato migliorando  l'efficienza e la qualità dei servizi, grazie ad archivi bene organizzati. La giornata formativa verterà sulle modalità di catalogazione, registrazione descrizione e classificazione di tutte le tipologie di documenti prodotti seguendo metodi corretti per individuare e conoscere i prodotti realizzati e documentarli in modo opportuno. L'apprendimento quindi si focalizzerà sull'attività di archiviazione delle informazioni raccolte secondo precisi criteri, in quanto la salvaguardia e la conservazione delle proprie testimonianze storiche non può prescindere dalla conoscenza della loro effettiva consistenza e dal loro studio analitico e scientifico. La catalogazione, raccogliendo in modo organizzato le informazioni sui documenti e prodotti realizzati, secondo un 'percorso' conoscitivo, controlla e codifica l'acquisizione dei dati secondo precisi criteri, offre un supporto fondamentale e si concretizza nell'individuazione, nello studio e nelle conseguenti operazioni volte alla protezione e alla conservazione della loro integrità. Il corso è aperto e gratuito e al termine della giornata sarà rilasciato un attestato di partecipazione.

mercoledì 22 ottobre 2014

Zamagni: alle radici del pensiero unico

L'economista analizza la società che oggi eleva tutti i desideri a diritti. «Vale per l’economia come per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti»

Da formula di cortesia – o d’amore, o di piaggeria – quel «ogni tuo desiderio è un ordine» è diventato principio giuridico. Non c’è gruppo di attivisti che non reclami il riconoscimento per legge dei propri desiderata, elevati a “diritti”. E guai a contestare queste pretese, magari nel nome di valori che guardano appena un po’ più in là dei gusti personali: scatta immediatamente il “politicamente corretto”, che censura chiunque osi porre un argine tra desiderio e diritto. Una reazione da “totalitarismo culturale”, da “pensiero unico”: «Un’espressione – illustra l’economista Stefano Zamagni – relativamente recente e collegata al concetto sviluppato dal politologo inglese Irving Janis fin dal titolo del suo saggio del 1972 Victims of groupthink (“Vittime del pensiero di gruppo”). Nel pensiero di gruppo, gli individui che lo compongono credono, senza alcuna costrizione, alla verità di quanto elaborato da loro stessi o da chi riconoscono come autorità di riferimento».
Come ci si arriva?
«L’idea, nata studiando le sette religiose, si è poi estesa anche ad altri ambiti. Oggi per esempio i jihadisti sono espressione di un pensiero di gruppo: sono veramente convinti di combattere per la giusta causa, e lo fanno non perché minacciati o retribuiti, ma per seguire l’indicazione del califfo. Ebbene, tra gli anni ’80 e i ’90 questo concetto ha trovato spazio anche in economia, con l’affermazione del modello teorico neoliberista. Inizialmente le cose andavano talmente bene che c’erano economisti (anche premi Nobel) che ritenevano concluso il loro compito, giacché ormai avevano trovato un modello capace di diffondere ovunque il benessere e la stabilità dei mercati».
Erano gli anni in cui Francis Fukuyama teorizzava la «fine della storia» dopo il trionfo dell’Occidente capitalista sul comunismo...
«Sì, ma non solo: il pensiero unico neoliberista aveva dalla sua anche altre due armi di seduzione. La prima era l’eleganza dello strumento matematico. La matematica ha un forte potere persuasivo: quando un teorema “è dimostrato”, l’uomo della strada finisce per crederci, dimenticando che – come ricordano i matematici seri – ogni teorema è valido solo sotto determinate assunzioni di partenza. In ambito finanziario il “modello di Black-Scholes-Merton” è raffinatissimo dal punto di vista matematico e “dimostrava” come i mercati fossero in grado di auto-correggersi tendendo alla stabilità».
E l’altra “arma”?
«Il successo immediato: grazie a quel modello fino al 2007 si sono fatti soldi a palate. La supposta solidità teorica sembrava confermata dai fatti, e la conferma dei fatti contribuiva a diffondere il modello. Naturalmente oggi sappiamo che conteneva errori».
Quali?
«Il principale fu assumere che il rischio finanziario sia sempre esogeno, che cioè provenga sempre dal fattori esterni al sistema: lo rendo tanto più piccolo, quanto più aumento il volume delle transazioni finanziarie. È così che è nata la bolla speculativa dei derivati, sulla quale siamo franati perché invece il rischio era endogeno e quindi aumentava via via che aumentava lo spazio della finanza. I derivati sono stati creati in obbedienza al pensiero unico: per aumentare il numero delle transazioni».
E adesso a che punto siamo?
«Il re è nudo: quella teoria non è più in grado di suggerire linee d’azione. Ci troviamo in un limbo, ma io sono ottimista: la storia del pensiero economico insegna che dall’incertezza entro poco nasce un nuovo pensiero. Fu così nel ’700, quando dopo il mercantilismo si affermarono l’economia civile in Italia (Genovesi, Filangieri, Dragonetti) e l’economia politica in Scozia (Smith); fu così dopo la crisi del 1929, quando emerse Keynes. Oggi anche ex difensori del pensiero unico – come i Nobel Stiglitz, Phelps e Krugman – hanno cambiato direzione, per non parlare di Amartya Sen, che ha cominciato a criticarlo fin dagli anni ’70... Si sta preparando una nuova rivoluzione scientifica».
Ma se il politico continua a delegare al tecnico le proprie decisioni, non c’è il rischio di cadere subito negli stessi errori?
«L’economia deve essere autonoma, ma non separata dall’etica e dalla politica. Occorre ribaltare il principio del “Noma” (Non-overlapping magisteria) teorizzato fin dal 1829 da Richard Whateley, che sostiene che “i magisteri non si sovrappongono”, che per essere scienza l’economia non deve mescolarsi all’etica e alla politica. Business is business. Per evitare di riprodurre il pensiero unico bisogna garantire il pluralismo, invece negli ultimi decenni i fondi di ricerca, le cattedre universitarie, gli spazi di pubblicazione andavano solo agli “allineati”. Questa è dittatura del pensiero».
Una dittatura che non si limita al campo economico...
«Vale per l’economia come per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti: se preferisco diventare donna e generare un figlio devo poterlo fare, se preferisco scegliere come dev’essere fatto il mio bambino devo poterlo fare... Eppure non c’è solo il “diritto” dell’adulto che decide: c’è anche, per esempio, quello del nascituro. Che non viene mai riconosciuto, perché non c’è nessuno che possa “negoziare” in vece di chi non ha voce».
Ma questa è la teoria liberale classica: mediazione tra diritti che confliggono…
«I vecchi liberali erano persone serie... John Stuart Mill diceva che le preferenze devono avere sfogo fino a quando compatibili con i diritti di tutti. Era lo spirito della prima rivoluzione dell’individualismo, quella illuminista di fine ’700. A fine ’900 invece la seconda rivoluzione ha imposto il pensiero unico di un individualismo non più liberale ma libertario – per il quale le preferenze dell’individuo hanno lo stesso statuto dei diritti. Ed è reso ancor più pericoloso dal fatto che oggi la tecnologia consente di ottenere quello che un tempo non si poteva nemmeno immaginare».
di Edoardo Castagna da avvenire.it

martedì 21 ottobre 2014

Nobel per la pace a Malala Yousafzai e Kaliash Satyarthi, paladini dei minori

E proseguendo il nostro discorso sulla pace, parliamo di premio Nobel che quest'anno premia una coppia di attivisti per la loro lotta a favore dei bambini e del loro diritto all’istruzione: una pachistana e un indiano, una musulmana e un hindu

 Il Premio Nobel per la Pace 2014 è stato assegnato a Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana vittima di un attentato talebano nel 2009, a 12 anni, perché difendeva il diritto delle bambine allo studio e all’indiano Kailash Satyarthi, 60 anni, attivista dei diritti dei bambini. Lo ha annunciato Thorbjoern Jagland, il presidente del Comitato del Nobel norvegese al Nobel Institute di Oslo.   I bambini – riporta il comunicato che accompagna il Premio – devono poter andare a scuola e non essere sfruttati per denaro. Nei Paesi più poveri del mondo, il 60 per cento della popolazione ha meno di 25 anni; ed è un prerequisito per lo sviluppo pacifico del mondo che i diritti dei bambini e dei giovani vengano rispettati. Nelle aree devastate dalla guerra, in particolare gli abusi sui bambini portano al perpetuarsi della violenza generazione dopo generazione”.  LAccademia norvegese ha deciso così di premiare una coppia di attivisti per la loro lotta a favore dei bambini e del loro diritto all’istruzione, dando anche un messaggio di distensione tra due Paesi – India e Pakistan – in guerra dal 1947, in conflitto oggi per il controllo della regione di confine del Kashmir: “Crediamo che sia un punto importante per un hindu e una musulmana, un indiano e una pachistana, unirsi in una lotta comune per l’educazione e contro l’estremismo”.  
Malala Yousafzay è la persona più giovane ad avere vinto il premio nella storia di tutte le categorie del premio. “Nonostante la sua giovane età – ha scritto il Comitato – già da anni combatte per i diritti delle bambine all’educazione e ha dimostrato con l’esempio che anche bambini e giovani possono contribuire a migliorare la situazione. E lo ha fatto nelle circostanze più pericolose: attraverso la sua battaglia eroica, è diventata una voce guida per i diritti dei bambini all’educazione”. Malala è originaria di Mingora, nella valle dello Swat, nella provincia della Frontiera del Nord-Ovest in Pakistan. La regione tra il 2007 e il 2009 è finita sotto il controllo dai taliban, che hanno chiuso le scuole e imposto la legge islamica. Nel 2009, la ragazzina, all’età di 11 anni, ha cominciato a scrivere un blog sotto lo pseudonimo Gul Makai sul sito della Bbc raccontando l’esperienza sua e degli altri bambini sotto il dominio talebano. Un editto emanato dal leader locale della fine del 2008 ordinava la cessazione di tutta l’istruzione femminile entro un mese: se il divieto non fosse stato rispettato, le scuole avrebbero subìto gravi conseguenze. Il 9 ottobre del 2012 fu colpita da vari proiettili alla testa e al collo mentre tornava da scuola. A volerla uccidere erano i talebani pachistani. Ma Malala è sopravvissuta grazie alle cure ricevute al Combined military hospital di Peshawar prima, e al Queen Elizabeth hospital di Birmingham, da cui uscì 3 mesi dopo, sulle sue gambe. A 9 mesi dalla sparatoria, il 12 luglio del 2013, in occasione del suo sedicesimo compleanno, ha pronunciato un discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in cui ha chiesto ai governi di tutto il mondo di impegnarsi nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini. I 10 talebani sospettati di averla ferita sono stati arrestati il mese scorso. Mentre a Oslo le assegnavano il premio, Malala Yousafzay era “a scuola, come sempre” a Birmingham, città dove risiede dal giorno del ricovero.
Kailash Satyarthi è nato 60 anni fa a Vidisha, città del Madhya Pradesh, stato dell’India centrale. È un attivista dei diritti umani, impegnato dagli anni ’90 nella lotta contro il lavoro minorile e lo sfruttamento con la sua organizzazione ‘Bachpan Bachao Andolan’: la sua azione ha permesso di liberare almeno 80 mila bambini dalla schiavitù, favorendone la reintegrazione sociale.  Il Comitato del Nobel ha dato atto all’indiano di aver dimostrato “grande coraggio personale, mantenendo la tradizione di Gandhi, guidando varie forme di protesta e dimostrazione, tutte pacifiche, contro il grave sfruttamento dei bambini a scopi di finanziari, contribuendo anche allo sviluppo di importanti convenzioni internazionali sui diritti dei bambini”. Negli oltre 25 anni di attività a difesa dei diritti dei minori, ha partecipato a numerose campagne internazionali come la Marcia globale contro il lavoro minorile, attirando su di sé l’attenzione dei media di tutto il mondo. Come presidente della Marcia, nel maggio 2004 prese la parola in un convegno organizzato da Cgil, Cisl, Uil e Mani Tese in cui dichiarò: “Basterebbero tre giorni di spesa militare mondiale, pari a 11 miliardi di dollari, per far sparire la piaga del lavoro minorile attraverso l’istruzione data ai 246 milioni di bambini lavoratori”. Nel dicembre 2011 la sua organizzazione pubblicò uno studio in cui rivelò che in India scompaiono 11 bambini ogni ora perché vittime del vasto traffico di esseri umani esistente nel Paese. Ha dedicato il Nobel ai bambini che vivono in schiavitù: “È un onore per tutti quei bambini che soffrono in schiavitù, vittime del lavoro forzato e dei traffici”. 


venerdì 17 ottobre 2014

Marcia Perugia Assisi 19 ottobre 2014

In cammino per la pace e la fraternità

Cento anni fa scoppiava in Europa la prima guerra mondiale, lasciando sul campo più di 10 milioni di morti e 20 milioni di feriti, mutilati, invalidi. Le centinaia di guerre che sono venute dopo hanno causato più di duecento milioni di morti, senza contare i cosiddetti “danni collaterali” (milioni e milioni di donne, uomini e bambini uccisi o dilaniati dalla fame e dalle malattie conseguenza delle stesse guerre) e l’immensa quantità di beni e risorse che sono stati distrutti e sottratti allo sviluppo dell’intera umanità.
Inutile strage, avventura senza ritorno, la guerra è un mostro che continua a uccidere tante persone in tutto il mondo e minaccia di diffondersi ulteriormente. Armi micidiali continuano ad essere costruite e accumulate e insieme alla loro proliferazione incontrollata cresce anche la propensione ad usarle. Contro questo scenario angosciante abbiamo il dovere di insorgere!
Dopo cento anni di orribili massacri e crimini contro l’umanità è venuto il tempo di riconoscere che la pace è un diritto umano fondamentale della persona e dei popoli, pre-condizione necessaria per l’esercizio di tutti gli altri diritti umani. Un diritto che deve essere effettivamente riconosciuto, applicato e tutelato a tutti i livelli, dalle nostre città all’Onu. 
A cento anni da quella terribile tragedia la pace è ancora in pericolo.Troppe persone precipitano nella povertà e nella disperazione. Succede ogni giorno in Italia, in Europa e in tante parti del mondo. Troppe ingiustizie si sommano a troppe disuguaglianze. Troppi problemi attendono inutilmente di essere risolti. Troppa violenza dilaga senza limiti né confini. Troppi soldi continuano a riempire il mondo di armi. Troppe armi alimentano nuove guerre. Troppi egoismi, interessi e complicità impediscono che le cose cambino. Intanto la crisi globale fa strazio di vite umane alimentando paure, angosce, sfiducia e chiusura.
Non c’è pace senza diritti umani. Lo sa bene chi non riesce a trovare lavoro, chi non ha cibo e acqua a sufficienza, chi non può curarsi come dovrebbe. Il mancato rispetto dei diritti umani fondamentali crea tensioni, conflitti, disuguaglianze e insicurezza. E finisce per togliere la pace anche a chi pensava di averla.
Per uscire da questa crisi dobbiamo riscoprire il valore della fraternità che deve improntare tutti gli aspetti della vita, compresa l’economia, la finanza, la società civile, la politica, la ricerca, lo sviluppo, le istituzioni pubbliche e culturali. La globalizzazione della fraternità deve prendere il posto della globalizzazione dell’indifferenza. La pace è un bene comune indivisibile. O c’è per tutti o non c’è per nessuno. Non ci sono più i “fatti nostri” e quelli “degli altri”. Contribuire alla costruzione di un futuro migliore per tutti e alla soluzione delle grandi sfide comuni che incombono è un nostro dovere e un nostro interesse. Ma noi cosa possiamo fare?
Serve più responsabilità personale. La crisi della politica e delle istituzioni ci lascia sempre più soli davanti a problemi sempre più gravi e complessi. Se davvero vogliamo la pace dobbiamo essere disponibili a fare la nostra parte. Partire da noi, da quello che possiamo fare in prima persona, nell’ambito delle nostre possibilità, ci consente di esigere con ancora più forza e autorevolezza il cambiamento che si fa sempre più urgente.
La pace comincia dalle nostre città-mondo. Il nostro impegno per la pace deve crescere innanzitutto nei luoghi dove viviamo tutti i giorni, nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle nostre città. Deve essere concreto, aperto e costruttivo. E’ qui, nelle città-mondo, dove comincia il rispetto dei diritti umani e la nostra responsabilità di costruttori della pace. E’ qui che dobbiamo agire per rinsaldare l’agenda interna con quella internazionale. Ciascuna delle nostre città deve diventare un laboratorio di quel cambiamento che invochiamo per il mondo intero. Costruiamo insieme le città della pace e dei diritti umani.
Se vogliamo la pace dobbiamo educarci alla pace. La cultura che respiriamo è ancora oggi una cultura di guerra, intrisa di individualismo, egoismo e indifferenza. Per questo, prima di tutto, dobbiamo educarci ed educare alla giustizia e alla pace, alla nonviolenza e ai diritti umani. Tutti si devono sentire corresponsabili di questo sforzo. Abbiamo bisogno di diffondere e consolidare un’altra cultura, un’altra scala di valori, un’altra idea della pace lontana da ogni atteggiamento di rinuncia, accomodamento e utilitarismo.Abbiamo bisogno di un’informazione e una comunicazione pubblica di pace, libera da lacci economici e politici, attenta alla vita reale delle persone e dei popoli, dell’Europa e del mondo. Investire sui giovani e sulla loro formazione, consentirgli di essere parte attiva della comunità “glocale” e del cambiamento epocale che stiamo vivendo, non è solo un’opportunità per tutti ma un dovere primario.
Non c’è pace senza una politica di pace. E una politica di pace è tale se è tutti i diritti umani per tutti. Molti problemi sono fuori dalla nostra portata. Ma quello che non possiamo fare in prima persona lo può e lo deve fare il nostro paese, l’Italia e l’Europa. L’Italia e l’Europa devono essere pienamente consapevoli delle sfide che ci investono a partire dal Mediterraneo e dal vicino Oriente e devono alimentare una politica di pace e fratellanza, di disarmo e cooperazione fondata sulla promozione dei diritti umani. Una politica coerente con il progetto iscritto nella nostra Costituzione e nelle carte fondamentali dell’Europa e delle Nazioni Unite. L’assenza di questa politica, il ripiegamento dell’Italia e dell’Europa ci stanno esponendo a seri pericoli e ci stanno facendo perdere grandi opportunità. Ma noi non ce lo possiamo permettere. Una fase della nostra storia deve essere chiusa per cominciarne un’altra. Costruirla dal basso è un dovere che ci dobbiamo e vogliamo assumere.

Comitato Promotore Marcia Perugia-Assisi
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