lunedì 28 aprile 2014

Cittadinanza attiva: tra volontariato e democrazia

Il  volontariato che  ha il diritto e la libertà di intervenire attivamente nella cura dei beni comuni al fianco del pubblico.

Un sondaggio di Eurobarometro dell’ottobre 2010 ha chiesto ai cittadini della Ue di definire il loro status e i diversi diritti che possiedono come cittadini dell’Unione europea. I risultati dicono che il 58% degli italiani sa cosa vuol dire essere cittadini europei; il 30% conosce il termine ma non sa cosa vuole dire e l’11% non ne ha mai sentito parlare. Rispetto ai diritti di cittadinanza la percentuale precipita: il 51% non è bene informato e il 15% non ne sa nulla. Inoltre per la maggior parte sono consapevoli di essere «sia cittadini dell’Ue sia della propria nazione». Tuttavia, circa un quinto degli intervistati pensa che «si può scegliere di essere cittadini della Ue».

Abbiamo chiesto a Gregorio Arena, docente di diritto amministrativo all’Università di Trento e alla Luiss di Roma, nonché presidente di Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà) e studioso di cittadinanza attiva, come dobbiamo leggere questi dati e quali conseguenze possiamo trarne.

«La cittadinanza europea la si acquisisce solo se si è cittadini di uno stato membro dell’Unione europea. L’aspetto interessante è che l’Ue ha preso una posizione molto netta di non intervento nelle modalità di acquisizione della cittadinanza dei Paesi membri. Le nazioni che hanno fondato l’Europa sono partite dall’assunto di non volere più guerre, rinunciando così all’uso della forza nella relazione tra di loro. Poi hanno rinunciato a battere una moneta nazionale e hanno condiviso l’euro. Però non hanno rinunciato a voler determinare i modi con cui si diventa cittadini della propria nazione. È come se il caposaldo della sovranità nazionale fosse intoccabile. Perché l’esser cittadino di uno Stato vuol dire essere parte di una comunità, quindi c’è un dentro e un fuori sia metaforico che materiale. Si diventa cittadini europei solo se si è cittadini di una Nazione europea, ma sul come lo si diventa l’Unione non è in grado di offrire alcun consiglio. Qualche anno fa per esempio, abbiamo registrato che in America Latina, in particolare in Argentina, tantissimi discendenti di italiani richiedevano la cittadinanza italiana. Ma il vero motivo di questa forte richiesta, soprattutto negli anni pre-crisi, era proprio per avere la possibilità di muoversi liberamente nello spazio europeo, quindi non da immigrato extracomunitario. Infatti la legge italiana sulla cittadinanza privilegia lo ius sanguinis - il diritto di sangue - e quindi riconosce il diritto ad essere cittadini italiani a persone che non hanno nulla a che fare con l’Italia e che di fatto vivono in un altro Paese, mentre non lo riconosce ai 900 mila ragazzi figli di immigrati nati in Italia ma che appunto non sono figli di italiani. Eppure non sono stranieri dato che vivono qui, vanno a scuola, fanno parte di una comunità. Non c’è un fuori da cui sono venuti essendo nati qui. Dunque questo tema della cittadinanza nazionale è cruciale perché poi ogni Stato decide chi deve essere cittadino e, di conseguenza, se diventa cittadino europeo. Se noi riconoscessimo ai 900 mila ragazzi figli di immigrati il diritto alla cittadinanza in virtù dello ius soli – diritto del suolo – per il fatto di essere nati sul territorio dello Stato, questi 900 mila diventerebbero automaticamente cittadini europei.




«Il volontariato è una delle dimensioni fondamentali della cittadinanza attiva e della democrazia, nella quale assumono forma concreta valori europei quali la solidarietà e la non discriminazione e in tal senso contribuirà allo sviluppo armonioso delle società europee». Sono passaggi fondamentali della decisione del Consiglio Europeo del 27 novembre relativa all’Anno europeo delle attività di volontariato che promuovono la cittadinanza attiva. Una decisione che incentra la sua azione sul sostegno agli Stati membri di portare al centro del dibattito l’azione volontaria e di promuovere scambi di esperienze e buone prassi tra le associazioni. Dare visibilità a un mondo operoso, poco raccontato dai media, ma che attraverso attività e iniziative e relazioni pone al centro la comunità e il territorio nei quali opera. Lei pensa che l’Italia sia pronta a tutto questo?

Sì, il volontariato è uno dei pochi punti di riferimento dell’opinione pubblica italiana frastornata e delusa. Infatti i dati sulla fiducia nei partiti sono in discesa, solo il 14% degli italiani si fida dei partiti politici. Un consenso in caduta libera, se teniamo conto che nel ‘93, dopo Tangentopoli, la fiducia era al 24% e riguardava solo alcuni partiti. Vent’anni dopo è precipitata ai minimi storici e si estende a tutti i partiti. Quella che abbiamo di fronte è una situazione pericolosissima dal punto di vista della tenuta del sistema democratico, soprattutto quando il rispetto nei confronti dei partiti raggiunge queste percentuali così basse. In compenso le associazioni di volontariato riscuotono un’altissima fiducia. Secondo il rapporto Italia 2011 di Eurispes, le organizzazioni che ogni giorno si impegnano sul fronte della solidarietà verso il prossimo sono capaci di raccogliere tra gli italiani un indice di gradimento vicino all’80%. L’Italia sembra dunque essere un terreno di coltura particolarmente fertile per il volontariato sia per caratteristiche storiche, sia per tradizione. Se è vero infatti che il municipalismo, il localismo, sono concetti negativi, perché introducono egoismi territoriali e frammentazione, è altrettanto vero che dal punto di vista dell’esercizio delle forme di volontariato sono un vantaggio. Perché il volontariato si esprime soprattutto a livello di comunità locale.


Poi c’è il capitolo del pluralismo. L’Italia, grazie all’articolo 2 della Costituzione che riconosce le formazioni sociali, è un terreno fertile di associazioni, movimenti, organizzazioni, comitati. E, per il rovescio della medaglia, questo è anche uno dei motivi per cui nel nostro Paese è più difficile amministrare. Ma, se le amministrazioni pubbliche rispecchiano le società di cui sono a servizio, allora l’amministrazione pubblica italiana è un’amministrazione molto frammentata, il cui problema principale spesso è il coordinamento, proprio perché rispecchia la società in cui è inserita. Dalla società italiana arrivano continuamente anche spinte minuscole, ma che sono segno di vivacità e di vitalità. Quanti sono i comitati di persone che si impegnano sul territorio? Tantissimi. Ma, non ultimo, l’Italia è l’unico Paese europeo, tranne la Polonia che ha un piccolo articolo simile, che ha riconosciuto in maniera esplicita il principio di sussidiarietà nella Costituzione. Devo anche sottolineare che mi è successo di incontrare rappresentanti del volontariato di altri Paesi europei che erano assolutamente allibiti all’idea che la Costituzione italiana riconoscesse la cittadinanza attiva e quindi il volontariato.

mercoledì 23 aprile 2014

Ancora sul tema della cittadinanza attiva. Capitale sociale e cittadinanza attiva.

La partecipazione civica  ha il suo nucleo di attivismo all'interno delle formazioni locali e nelle costruzioni identitarie. Il nostro percorso sulla cittadinanza attiva in questo post vuole quindi analizzare il concetto di comunità e relativo capitale sociale. 


Con il termine "comunità" si intende far riferimento alla centralità del bene comune e a condizioni che permettono l'agire sociale (individuale e collettivo) sostenuto da un forte sentimento di appartenenza e volto proprio alla ricerca del bene comune; un interesse generale e un bene comune che non sono originari e predefiniti una volta per tutte, ma frutto di una costruzione sempre in fieri, alla quale si perviene attraverso l'interazione dei membri della comunità, attraverso la loro attiva partecipazione con forme e modalità sempre nuove: basti pensare alla vitalità dell'associazionismo sia nazionale che locale e a strumenti di interazione/discussione quali i forum. Riemerge allora forte un bisogno di comunità che con frequenza trova una prima forma di risposta personale e collettiva nel Terzo Settore, rispetto ad un desiderio e ad un progetto di interesse generale, ossia di "bene comune". In questo ambito dunque cresce e si consolida il cosiddetto “capitale sociale”, concetto che si concretizza nella schiera dei volontari che agiscono in modo collettivo e comune a favore del proprio “prossimo”, sia esso di prossimità spaziale che di giustizia sociale. E dunque appare necessario porsi il seguente interrogativo considerando la correlazione tra capitale sociale e cittadinanza attiva, come si connota, in proiezione futura, la partecipazione degli individui nelle dinamiche del “meccanismo” sociale? Tutti sono concordi nel ritenere che si partecipa meno, che non si insegna più a partecipare, tanto che si è coniugato il termine "partecipazione attiva". Così se anni fa, parlando di partecipazione, si sarebbero usati (quasi come sinonimi) altri tre vocaboli - appartenenza, militanza e rappresentanza - oggi il senso di queste parole va senz'altro ridefinito. Appartenenza oggi significa più una ricerca di luoghi di espressione di sé, che non invece l'indossare una "casacca" definitiva. Militanza: oggi è legata al cogliere opportunità, anche legate ai grandi movimenti ed alle grandi adunanze massmediatiche, che poi però producono poco sul territorio in termini di ricaduta di impegno concreto. Rappresentanza: non sono certo le tradizionali forme di rappresentanza ad avere oggi il favore degli individui e soprattutto dei giovani, a partire da sindacati e partiti. In particolare questi ultimi sono messi agli ultimi posti anche dagli Assessori alle politiche sociali e giovanili quando devono ricercare soggetti del territorio con cui co-progettare.
Vale la pena di intendersi meglio sul concetto di partecipazione. Infatti questo ha una doppia dimensione: quella del "prendere parte" e quella del "sentirsi parte", come se ci fosse un modo razionale legato al campo del diritto-fondamento, unito però ad uno più emotivo del "sentirsi dentro" a processi, alla comunità, a varie forme di appartenenze per la ricerca di un "bene comune". Questo "sentire comune" fonda e mantiene vivi i legami, le passioni, il piacere di incontrare le persone (che quindi non è solo un diritto/dovere) e forma quello che viene chiamato koinè, termine greco che significa appunto "senso di comunità condiviso". Il "sentirsi dentro" a questi processi di partecipazione passa per la costruzione di uno spazio in cui ci si sente inclusi e proiettati verso un cambiamento “possibile, democratico e equo” in una dimensione che è anche di presente lo svago e il piacere perché in questi contesti possono emergere potenzialità, idee e risorse di chi vi partecipa. Pensare a questi percorsi di partecipazione come a catalizzatori necessari alla produzione di capitale sociale (livelli di fiducia) è certo un nuovo modo di intenderne la mission ed il ruolo, ma soprattutto rappresenta un nuovo modello di partecipazione civica e politica – assumendo quest'ultimo come l'agire per il governo comune – ovvero percorsi di riconoscimento per i piccoli (ma importanti) "beni pubblici" collegati al territorio ma anche ai "beni relazionali", riconosciuti e riconoscibili dalla comunità, in grado di creare maggior coesione sociale in cui le soggettività coinvolte si riconoscono. Ma dove iniziare a costruire la partecipazione e il protagonismo civico? Perchè si elaborino percorsi di partecipazione attiva – sconfiggendo quello che in termini generalistici e massificatori viene definita “ antipolitica” - ed abbia un vero senso, è indispensabile che si inizi da giovani a partecipare e ad esercitare influenza sulle decisioni, sui progetti e sulle attività che li riguardano, e non in ulteriori stadi della loro vita. Ora e subito, in un coinvolgimento di carattere progressivo in cui la partecipazione produce capitale sociale: elemento centrale con cui costruire reti, relazioni, processi di comunità, alleanze territoriali sul senso del fare alcune cose, di fronte a città sempre più frammentate, in cui si lavora "per e con" i giovani, ma favorendone anche un incontro con il mondo adulto, costruendo così koinè. Come? Attivando esperienze e percorsi che promuovano il protagonismo sociale delle persone, contrastando il rischio che in futuro le città siano abitati da in-dividui, ovvero da soggetti che "non dividono" il loro spazio sociale con altri. Atomi sul territorio, tra loro slegati, senza un'idea di società in testa perché non la vivono come società - ovvero comunità anima e pensiero- e non l'hanno sperimentata da giovani. Come può allora la città diventare, da spazio fisico (da non-luogo), laboratorio sociale e culturale dove le persone possono trovare stimoli e strumenti per inventare nuovi mondi possibili? Andando ad intercettare quella domanda di impegno e di voglia di sperimentare, creando opportunità per produrre e poi proporre ad altri, per coinvolgere sempre più soggetti, comunicando orizzontalmente tra le persone anche con l'aiuto delle tecnologie digitali, entrando rapidamente in connessione, muovendosi con rapidità. Ogni gruppo sociale infatti che si attiva, diventa un organismo che conta e con la città deve fare i conti, produce, ha potere per produrre cambiamento. Un capitale sociale in crescita che ha la forza contrattuale di intervenire nelle decisioni di cui siano i destinatari influenzandole ed impegnandosi in attività ed iniziative che possano contribuire alla costruzione di una società migliore, dando così alla partecipazione un vero senso.

lunedì 21 aprile 2014

Ancora sul tema della cittadinanza attiva.





Che cos'è la cittadinanza attiva?


Il termine cittadinanza esprime un vincolo, che è anche un diritto, di appartenenza a una
città o a uno stato da parte di un individuo, nativo o naturalizzato, detto cittadino. In ambito giuridico, il termine indica l’insieme dei diritti e dei doveri di chi appartiene a un determinato stato o a una determinata comunità. La cittadinanza può essere vista come uno status del cittadino, ma anche come un rapporto giuridico tra cittadino e stato. Il concetto di cittadinanza si ricollega alla titolarità di determinati diritti, detti appunto diritti di cittadinanza, enunciati nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti e che si distinguono in diritti civili, diritti politici e diritti sociali. Ai cittadini in quanto membri della comunità politica spettano in genere alcuni diritti che prendono il nome di diritti politici: ad esempio il diritto di voto, di essere eletti alle cariche pubbliche, di associarsi in un partito politico, di accedere ai pubblici uffici. In Italia questi diritti sono solennemente enunciati dalla Costituzione, che riconosce fra l’altro al cittadino italiano il diritto al lavoro, alla libera circolazione, alla riunione e all’associazione. A tutte le persone in quanto esseri umani e indipendentemente dal possesso della cittadinanza spettano invece alcuni diritti che prendono tradizionalmente il nome di diritti della persona: ad esempio il diritto alla manifestazione del pensiero e il diritto alla libertà religiosa.

Semplificando molto, quando si sente la parola Cittadinanza di solito vengono in mente due cose: un insieme di regole(diritti e doveri) e un gruppo di persone (i cittadini). Il primo concetto deriva dal fatto che essere cittadini implica necessariamente essere riconosciuti tali da uno stato, con il quale abbiamo un rapporto definito da diritti e doveri. I Cittadini hanno certi diritti riconosciuti e garantiti dallo stato e sono tenuti a rispettare determinati doveri nei confronti dello stato stesso. La cittadinanza in questo caso è un legame/relazione tra un cittadino e il proprio stato e diciamo che può essere considerata una relazione di tipo verticale. Quando pensiamo alla cittadinanza come all'insieme di persone, ad esempio i cittadini italiani, questo concetto assume una dimensione orizzontale, una relazione paritaria tra tutti gli appartenenti allo stesso gruppo. In questo caso cittadinanza significa anche appartenenza, sia ad uno stato che ad un gruppo di persone con il quale ci identifichiamo e con il quale siamo in genere solidali. La cittadinanza attiva è la capacità dei cittadini di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse umane, tecniche e finanziarie, e di agire con modalità e strategie differenziate per tutelare diritti esercitando poteri e responsabilità volti alla cura e allo sviluppo dei beni comuni. La parola chiave condivisione non si limita alla sfera degli interessi, ma occorre che si estenda a un insieme di valori. Favorire la consapevolezza di valori condivisi, lavorare perché l’azione comune non prescinda da essi, prima ancora di essere un esercizio politico, si configura come un fatto eminentemente educativo. Il significato di cittadinanza ha un valore aggiunto che risiede sicuramente nei termini di cittadinanza attiva e solidale. Per Attiva si intende un voler prendere parte concretamente all’azione civica nelle sue molteplici forme, per solidale si intende invece avere un occhio attento e pronto verso chi, per vari motivi si sente fuori, non integrato, non coinvolto nella vita pubblica. Attraverso la prospettiva della cittadinanza attiva, si propongono processi di cambiamento, i concetti di cittadinanza e di democrazia si fondano infatti sulla cooperazione e sul rispetto reciproco. L’ obiettivo è educare cittadini (consumatori critici) che siano capaci di giocare il proprio ruolo nel guidare scelte politiche e nel promuovere comportamenti ispirati ai principi di un’economia, di uno sviluppo e di una società sostenibili. La scuola educa alla cittadinanza attiva, al bene comune, al senso dello Stato e delle istituzioni, se è capace di stabilire essa stessa un ponte con il territorio, con la città, con i problemi che attraversano la vita della comunità, a livello locale e planetario L’umano va ampliato sia nella direzione del vissuto esistenziale e della relazione interpersonale, rispetto dei diritti umani, cultura della legalità, sviluppo equo e sostenibile, interculturalità costituiscano il quadro valoriale di riferimento per nuove relazioni di comunità, ai vari livelli, per una convivenza civile non segnata dal degrado, dalla paura, dall’esclusione. Dobbiamo riscoprire il valore del bene comune da costruire insieme, della cittadinanza attiva, del sapersi assumere le responsabilità, della partecipazione alla vita sociale, culturale, politica.

Ad ognuno, per la sua parte, compete l’esercizio del potere, come possibilità e capacità di poter essere e poter fare il cittadino, di intervenire sulle decisioni, di prendersi cura della comunità. C’è bisogno di un forte senso delle istituzioni, dello stato, della legalità e a ciascuno è richiesto di adoperarsi perchè la democrazia, il pieno rispetto della Costituzione - con i principi di libertà, di giustizia e di uguaglianza in essa sanciti - restino punti fermi di scelte e progetti politici ed economici. L’esercizio delle responsabilità sociali richiede conoscenza, competenza, progettualità, capacità che si acquisiscono in un quotidiano impegno ad informarsi, a partecipare, a pagare di persona, a scendere in campo. Sotto questo aspetto tre sono gli elementi che guidano i processi di cittadinanza attiva:  Informazione,Espressione, Azione. Essere un Cittadino Attivo significa prima di tutto essere cosciente dei propri diritti e dei propri doveri, questo implica necessariamente informarsi. Questa informazione deve essere fornita prima di tutto dalle istituzioni (Stato, scuola) e dai media (televisione, Giornali) ma credo che un Cittadino Attivo debba fare lo sforzo per cercare di avere un minimo informazioni anche da altre fonti, in modo da potersi fare un'idea propria e non condizionata. Una volta informato il Cittadino Attivo dovrebbe adoperarsi per esprimere e per far conoscere il proprio pensiero. Il modo più semplice per esprimere il proprio pensiero è parlarne con altre persone, magari con gli amici discutendo non solo di gossip o shopping. Andare a votare (e votando anche scheda nulla o bianca se necessario) è invece il modo migliore per far rispettare attivamente il proprio pensiero. Infine vi è un obbligo morale di un cittadino Attivo quello di Agire nel cercare di “risvegliare” altre persone, cercando di attivarle, oppure partecipando nella società come detto prima nel volontariato, in campo civile, in politica o in altri campi. 
a cura della Redazione

martedì 15 aprile 2014

Breve riflessione sul ruolo dell’assistente sociale nell’ambito della cittadinanza attiva

Iniziamo con questo primo post ad occuparci di cittadinanza attiva e di partecipazione civile. L'attivismo civico in un momento di crisi sociale ed economica è una forma democratica di tutela dei diritti  esistenti e del  riconoscimento dei  nuovi. Il concetto di cittadinanza attiva trae origine e  fondamento nell'art.118 della Costituzione, che recita: "Stato, regioni, province, città metropolitane, comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà"

La professione di assistente sociale, nel corso del tempo ha subito numerosi mutamenti, frutto anche dell'evolversi dei sistemi di welfare nelle società moderne. Essa viene oggi designata sostanzialmente come una professione o comunità professionale caratterizzata da un’insieme di competenze e di pratiche che sono necessarie per erogare servizi alla persona di carattere assistenziale e socio-sanitario, rivendicandone tutta una serie di diritti legati alla persona e in particolare all’utente, che vive nella difficoltà. Il soggetto in condizioni di disagio e/o di disabilità diventa spesso un emarginato poiché non è in condizioni di fruire appieno dei diritti che gli derivano dal possesso della cittadinanza. Chi è anziano e sofferente, chi è malato e non autosufficiente, chi è bisognoso di assistenza spesso non è in condizioni di far valere la propria domanda sociale e i propri diritti.

Un’ assistente sociale è dunque un professionista che utilizza la relazione di aiuto e di servizio alla persona in un'ottica di promozione della partecipazione sociale e della cittadinanza attiva.
E’ in questi termini che il Servizio Sociale può essere concepito come uno dei fattori essenziali per promuovere il valore della cittadinanza attiva e della democrazia intesa come partecipazione consapevole al processo e cambiamento della società.
Come ci ricorda F. Olivetti, “nel nostro paese l'erogazione di servizi di assistenza, sia sociale che sanitaria, non è motivata da esigenze di sostegno e/o di solidarietà nei confronti di soggetti svantaggiati e/o emarginati, esso risponde esplicitamente all'esigenza civile di sostegno della partecipazione sociale e della cittadinanza attiva.” Ciò permette di distinguere il Servizio Sociale promotore del principio di cittadinanza attiva dalla beneficienza, inteso come atto caritatevole. Non si vuole infatti aiutare chi è più bisognoso perché mossi da un ideale compassionevole, per migliorare la posizione sociale di chi non è in grado o non vuole aiutarsi da solo; al contrario si ritiene che una società in cui tutti siano in grado di esercitare la propria cittadinanza è una società in cui tutti vivono meglio, dove la qualità della vita di qualunque cittadino è più alta.

Un’altra delle funzioni attribuibili alla figura dell’assistente sociale è quella relativa alla promozione e diffusione del concetto stesso di cittadinanza attiva e di cittadini europei, poiché non tutti i soggetti sono a conoscenza del vero significato e della sua accezione più ampia: un sondaggio di Eurobarometro dell’ottobre 2010 ha chiesto ai cittadini della Ue di definire il loro status e i diversi diritti che possiedono come cittadini dell’Unione europea. I risultati dicono che il 58% degli italiani sa cosa vuol dire essere cittadini europei; il 30% conosce il termine ma non sa cosa vuole dire e l’11% non ne ha mai sentito parlare. Rispetto ai diritti di cittadinanza la percentuale precipita: il 51% non è bene informato e il 15% non ne sa nulla. Inoltre per la maggior parte sono consapevoli di essere «sia cittadini dell’Ue sia della propria nazione». Tuttavia, circa un quinto degli intervistati pensa che «si può scegliere di essere cittadini della Ue».

La nozione di Cittadinanza Attiva, in questo articolo, ha un duplice e cangiante significato, con riguardo, da una parte, agli attori sociali che la compongono e, dall’altra, agli scopi che essa si prefigge. Sotto il primo punto di vista, per Cittadinanza Attiva s’intende l’insieme di tutte quelle organizzazioni nate e gestite in modo autonomo dai cittadini per prendere parte all’identificazione dei problemi di rilevanza pubblica. Sotto il secondo punto di vista, per Cittadinanza Attiva s’intende la capacità dei cittadini di organizzarsi in modo multiforme, di mobilitare risorse umane, tecniche e finanziarie, e di agire nelle politiche pubbliche con modalità e strategie differenziate, per tutelare i diritti e prendersi cura dei beni comuni, esercitando a tal fine precisi poteri e responsabilità. Poteri e responsabilità finalizzati anche e soprattutto alla tutela dei diritti, attraverso la quale la persona, singola o associata, può manifestare, far valere e rendere effettive le proprie legittime esigenze di fronte ai suoi interlocutori, o soddisfarle costruendo da sé le risposte. Secondo tali definizioni, il concetto di cittadinanza attiva richiama anche quello della sussidiarietà, orizzontale e verticale. Temi molto vicini alle pratiche del Servizio Sociale e che influenzano in modo inciso le scelte relative alle politiche sociali.

L'attuazione piena e consapevole del principio di sussidiarietà nel terzo settore dovrebbe facilitare un giusto equilibrio nell’apporto fornito dai diversi tipi di organizzazioni ed enti: tra chi rileva i problemi, chi promuove la partecipazione a cominciare dai soggetti “deboli”, chi gestisce i servizi più strutturati, chi finanzia esperienze innovative ed emulative e redistribuisce le risorse. È in questa accezione che la figura dell’assistente sociale trova ampio spazio per l’esercizio delle sue funzione e l’attuazione di quei valori e principi richiamati nel codice deontologico della professione.
A cura della Dott.ssa Francesca Filice

venerdì 4 aprile 2014

Atti persecutori o Stalking ex art. 612 bis c.p.

Riceviamo e pubblichiamo volentieri un articolo della nostra amica e collaboratrice, Avv Elvira Dodaro, sul tema dello stalking focalizzato in ambito giuridico. 



Il Parlamento Italiano ha convertito in legge n. 38 del 23 aprile 2009 il cosiddetto “decreto antistupri” emanato dal Governo, ovverosia il D. L. 23 febbraio 2009 n. 11. In tal modo ( sia pur con ritardo rispetto a Paesi Europei quali la Germania o la Gran Bretagna) è stata introdotta nel nostro ordinamento giuridico una “nuova” fattispecie delittuosa, allo scopo di contrastare talune condotte persecutorie poste in essere soprattutto da uomini nei confronti delle donne. Trattasi del reato di “atti persecutori” altrimenti detto di “stalking” p.e p. dall'art. 612 bis c.p. Con questo termine derivante dal linguaggio tecnico-gergale della caccia e che significa letteralmente “fare la posta ad una preda”, si allude ad un complesso fenomeno relazionale qualificabile come “sindrome del molestatore assillante”. Questi, infatti, è sovente un soggetto dal temperamento “Bordeline” e cioè dall'equilibrio psichico alterato. Significativamente l'On. Giulia Buongiorno ( relatrice del disegno di legge trasfuso nel provvedimento governativo) spiega come le violenze e gli omicidi con movente sessuale o passionale a carico di donne, siano frequentemente “annunciati” da una serie di atti insistenti, molesti e/o minacciosi che causano alla vittima paura nonché ansia: appostamenti, pedinamenti, telefonate, sms e quanto idoneo a “braccare” la vittima designata. Nessun dubbio, pertanto, che la normativa sui reati persecutori nasca in una prospettiva ben precisa e cioè quella secondo cui il soggetto da tutelare è solitamente di sesso femminile. Nondimeno, osserva il Magistrato di Cassazione, Francesco Bartolini, la nuova fattispecie può trovare un ambito di applicazione più vasto e generalizzato. Difatti il legislatore, pur rispettando il principio di tassatività della norma penale, nel descrivere la condotta illecita ha utilizzato espressioni sufficientemente ampie al fine di ricomprendere la multiformità dei casi che si possono verificare nella realtà. Come sottacere, infatti, che anche le donne operano “stalking” per motivi passionali nei confronti degli uomini? D'altronde, sottolinea il Magistrato Raffaele Marino, gravi condotte persecutorie possono inerire ai rapporti di vicinato o a quelli tra genitori e figli. Queste azioni disturbatrici, tuttavia, non trovavano nel nostro sistema penale idonei strumenti di contrasto. In effetti l'art. 660 c.p. Nel punire atti di molestie o 
disturbo arrecati alle persone, richiede alcuni anacronistici requisiti quali la “petulanza” oppure il “biasimevole motivo” nonché la “commissione in luogo pubblico” o “aperto al pubblico” Ai fenomeni persecutori in oggetto, peraltro, non è applicabile nemmeno l'art. 615 bis c.p. Che riguarda l'indebita acquisizione o divulgazione di notizie sulla vita privata, ma non certo le molestie o il disturbo arrecati ad un soggetto indipendentemente da tali interferenze. Da qui la necessità di colmare un “vuoto normativo” non più sostenibile. Alla luce di quanto precede, possiamo cogliere appieno la portata innovativa dell'art. 612 bis c.p. Che punisce chiunque perpetri minacce e o molestie nei confronti di taluno “reiteratamente”, cioè non in una sola occasione bensì in un apprezzabile arco temporale. Parliamo, evidentemente, di una pluralità di azioni dal contenuto intimidatorio che si susseguono nel tempo e che costituiscono l'elemento materiale del reato. Sebbene adesso si attribuisca in genere natura “abituale”, tuttavia non mancano pareri difformi. Valga a mo' di esempio quanto scritto da Raffaele Marino (attuale Procuratore Aggiunto di Torre Annunziata) il quale sottolinea come il concetto di “reiterazione” differisca da quello più ampio di “abitualità”. Al riguardo, invero, non dovrebbe sussistere dubbio alcuno poiché lo stesso legislatore considera lo “stalking” un “reato abitule proprio”, così come si evince chiaramente dal resoconto sommario della seduta 10/12/2008della Commissione Affari Costituzionali . Comunque sia, ai fini del perfezionamento del delitto in parola, è necessario che questi comportamenti reiterati:
  1. pregiudichino in maniera rilevante il modus vivendi della persona offesa, costringendola a modificare significative e gratificanti abitudini di vita;
  2. oppure generano  nella stessa un giustificato timore per l'incolumità propria o di una persona vicina;
  3. oppure cagionino alla vittima un grave e perdurante disagio psichico, ossia un'alterazione del normale equilibrio psico-fisico che può persino trasmodare in una patologia clinica.
Riguardo all'elemento soggettivo del reato ( di certo indispensabile per l'integrazione dell'illecito) alcuni giuristi ritengono che la condotta dell'agente sia caratterizzata dal “dolo generico”, mentre secondo altri viene in rilievo il “dolo specifico” giacchè il persecutore, è ben consapevole di tenere comportamenti produttivi, in volgere di tempo, degli accadimenti dannosi di cui sopra. Stante la clausola “Salvo che il fatto costituisca più grave reato...” con cui esordisce l'art. 612 bis c.p. È innegabile come la disposizione in esame abbia carattere residuale: essa non troverà applicazione allorquando nei fatti accaduti sia ravvisabile un illecito più grave. Per ciò che concerne il bene giuridico tutelato dalla norma, esso va certamente individuato nella “libertà morale” intesa quale attitudine dell'individuo ad autodeterminarsi. Tuttavia, secondo l'Avv. Luigi Modaffari, il reato de quo è “pluri-offensivo” poiché le succitate condotte persecutorie possono ledere il bene costituzionalmente protetto della salute, qualora esse cagionino alla vittima lo stato di ansia e di paura previsto dalla norma codicistica. Lo “stalker” ( agli effetti dell'art. 612 bis c.p.) è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, salva l'applicazione di circostanze aggravanti. Basti pensare che quando il fatto venga commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato nonché da persona un tempo legata sentimentalmente alla vittima, la pena aumenta fino ad un terzo ( aggravante ad efficacia comune). Se invece, la condotta è tenuta ai danni di minore o di donna in stato di gravidanza ovvero di persona disabile oppure da individuo travisato o con l'uso di armi, la pena è aumentata fino alla metà ( aggravente ad effetto speciale). Qualora, infine, lo “stalking” venga effettuato da soggetto già ammonito dal Questore ( ai sensi dell'art. 8, comma 3, d.l. n. 11/09) si applica un aggravamento di pena pari ad almeno un terzo ( aggravante ed efficacia comune). Poichè l'illecito de quo incide direttamente sulla sfera privata della vittima, è giocoforza che esso sia procedibile a querela della persona offesa. Il termine utile per la proposizione del lamento penale, è fissato in sei mesi in luogo dei tre richiesti ex art. 124 c.p.. Si procede, tuttavia, d'ufficio allorchè:
a) il reato venga posto in essere nei confronti di minore o disabile;
b) la condotta sia tenuta con altro delitto per il quale si debba procedere d'ufficio;
c) il fatto sia commesso da soggetto precedentemente ammonito dal Questore.
Oltre a disposizioni di questo tipo la nuova legge, con lo scopo di indurre il molestatore a desistere dal proprio comportamento, prevede uno strumento di natura amministrativa che può intervenire “ante causam” e cioè prima di un procedimento penale. Significativamente l'art. 8 stabilisce come la persona offesa, fino a quando non sporga formale querela, possa avanzare all'Autorità di Pubblica Sicurezza richiesta di ammonimento nei confronti dello “stalker”. Prontamente trasmessa l'istanza al Questore lo stesso ( qualora la ritenga fondata dopo aver assunto eventuali informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti) ammonisce oralmente il persecutore, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge. Di ciò viene redatto processo verbale in duplice copia: l'una è rilasciata a colui che ha chiesto l'ammonimento e l'altra all'ammonito. Se questi persevera nel suo intento nonostante la diffida formale, si procede ex officio contro di lui ed in caso di condanna, dicevamo, la pena aumenta di almeno un terzo. Ulteriore novità è costituita dall'introduzione di una misura cautelare di tipo coercitivo, che si sostanzia nel divieto di avvicinamento dell'imputato o indagato ai luoghi frequentati dalla persona offesa oppure nell'obbligo di mantenere da essa una certa distanza ( art. 9 d.l. n. 11/09). E però nell'ipotesi in cui esistano motivate esigenze di tutela, siffatto divieto può essere esteso ai luoghi frequentati dai prossimi congiunti della vittima ovvero dai soggetti con essa conviventi o comunque legati alla stessa relazione effettiva. Tuttavia, se l'avvicinamento è inevitabile per ragioni lavorative o abitative, l'Autorità Giudiziaria detta prescrizioni ad hoc. Naturaliter affinché possa applicarsi questa misura coercitiva, è necessaria la ricorrenza dei presupposti ex artt. 273 e ss. cp.p. devono sussistere gravi indizi di colpevolezza, comprovate esigenze cautelari e la misura adottata deve risultare idonea alla tutela delle stesse. Occorre altresì, rammentare che l'art. 380 c.p.p. ( siccome novellato dalla recente legge) consente l'arresto facoltativo dello “stalker” in flagranza di reato. Meritano, inoltre, adeguata attenzioni talune modifiche apportate all'art. 392 c.p.p. In materia di incidente probatorio. L'ambito operativo di esso, infatti, viene esteso dalla nuova legislazione sia al reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli ( art. 572 c.p.) che a quello di “atti persecutori”.
Ma v'è di più. Sebbene il Pubblico Ministero e l'indagato siano rimasti i soli legittimati a proporre richiesta di incidente probatorio, tuttavia alla persona offesa si riconosce un “diritto di impulso” ossia quello di chiedere al PM di avanzare la suddetta richiesta al GIP: E' da notare, ancora, come il soggetto sottoponibile ad incidente probatorio non sia più soltanto il minore infrasedicenne, bensì genericamente il minore ovvero il maggiorenne che rivesta la qualifica di persona offesa. Il legislatore, infine, ha modificato l'art. 498 c.p.p. Riguardante l'esame protetto del testimone in fase dibattimentale. Ne viene estesa l'applicazione al processo per atti persecutori e potrà usufruire di questa protezione non solo il minore ma anche il maggiorenne che sia al contempo vittima del reato ed infermo di mente. Quale, dunque, il messaggio sotteso alla normativa sui reati persecutori? Certamente quello che nei mesi scorsi è stato diffuso dalle maggiori testate giornalistiche nazionali, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministero per le Pari Opportunità: Stalking quando le attenzioni diventano persecuzione, querela chi ti perseguita e riprenditi la tua libertà.
Avv. Elvira Dodaro




mercoledì 2 aprile 2014

Aspetti psicologici dell'omofobia: risponde la psicologa

Omofobia
Davide, Simone, Andrea, sono solo gli ultimi di una lunga lista di nomi di ragazzi morti a causa dell’omofobia, reato oggi non ancora punibile penalmente. Nell’era della modernità e dell’emancipazione l’omofobia sembra essere oggi un fenomeno quanto mai attuale e preoccupante, una vera e propria emergenza.
La letteratura ha identificato bisessuali e omosessuali come categorie ad elevato rischio suicidio oltre che di emarginazione sociale. In particolare sembra che i pregiudizi e gli atteggiamenti negativi, messi in atto nei confronti dei giovani omosessuali, finiscano per trasformarsi in una vera e propria realtà che viene interiorizzata e trasformata in idee errate e disfunzionali quali ad esempio la paura di essere sbagliati, di non meritare amore e di deludere genitori e amici. Dal punto di vista psicologico gli effetti sono spesso devastanti poiché vengono ripetutamente sperimentati da parte di chi subisce atti vessatori e umilianti , vissuti depressivi, ansiosi, di fallimento e di vergogna i cui effetti sono diversi e spesso gravi.
Recenti ricerche (V. Lingiardi, 2013) mostrano infatti che gli adolescenti che scoprono la propria omosessualità pensano al suicidio fino a tre volte di più rispetto ai coetanei eterosessuali. Questo dato così allarmante è dovuto non solo all'immagine negativa di sé che il giovane omosessuale interiorizza a causa della evidente diversità che sente rispetto agli altri ma anche e soprattutto allo stigma sociale che ne deriva. Tutto ciò compromette la qualità dello sviluppo affettivo, emozionale, relazionale (fuori e dentro le relazioni di coppia) e più in generale della personalità.
Alla luce delle svariate ricerche e dei numerosi casi di vittime di omofobia, oggi dovremmo essere tutti un po’ più consapevoli circa le responsabilità che ognuno di noi ha nella diffusione allarmante di questo triste fenomeno.
Scuola e famiglia sono fondamentali nel favorire la costruzione di una società che promuova la cultura della differenza, dei pari diritti, dell’ascolto e dell’accettazione.
Non esistono antidoti, la soluzione è nell'amore e nel rispetto per gli altri.
A cura della Dott.ssa Simonetta Bonadies