lunedì 30 giugno 2014

Servizio sociale e nuovi scenari di welfare. ( parte settima)

Le tendenze in atto

Il sistema dei servizi è attraversato, come abbiamo detto all’inizio, da forti venti di cambiamento. Stanno cambiando i paradigmi, le basi portanti della cultura tradizionale del welfare state postbellico, per effetto del motivo più prosaico: il welfare costa e costa sempre di più. Da anni molti pensatori, non solo quelli liberisti, sono convinti che non sia più sostenibile nella sua forma convenzionale. Non è sostenibile per le note dinamiche di globalizzazione economica, le quali non permettono più agli Stati occidentali con grandi apparati di welfare di reggere la concorrenza con Stati emergenti che hanno la fortuna di non dover gravare le loro imprese di tasse per finanziare quei servizi sociali che essi in effetti non hanno.


Nei decenni passati si era convinti che le funzioni universalistiche di servizio sociale avrebbero potuto e dovuto crescere fino al punto di coprire tutti i bisogni della società. Questo sembrava l’approdo ideale: una copertura di servizi così fine e capillare da intercettare tutti i problemi. Ora si capisce bene che questo progetto non è realistico, forse persino assurdo vedendo come si complicano e si aggrovigliano i problemi nei contesti postmoderni. Senza rischiare di fare come la volpe con l’uva, potremmo anche azzardare a dire che quel disegno onnicomprensivo non sia neppure auspicabile, perché andrebbe a depotenziare le capacità naturali delle comunità locali di risolvere i propri problemi, forse la risorsa più preziosa su cui dovremmo investire per contrastare il degrado avanzante.

Comunque sia, la indubbia tendenza in atto, portata dalla cultura neoliberale, è la seguente: quella di alleggerire e razionalizzare i sistemi di welfare istituzionali. Razionalizzazione nel campo del welfare vuol dire, in primis, non rincorrere più i bisogni con servizi sempre maggiori, in una logica incrementale sconnessa, bensì fissare dei limiti precisi alla spesa sociale. Inoltre vuol dire svincolare i servizi sociali dalla pubblica amministrazione e creare un sistema misto (welfare mix) regolato secondo logiche di mercato (Folgheraiter, 2003). In sintesi: lo Stato stanzia dei fondi ben limitati, questi fondi vanno a finanziare servizi che tendenzialmente dovrebbero essere gestiti da quei soggetti privati che abbiano dimostrato di essere i più efficienti, attraverso gare di appalto o comunque sottoponendosi a dinamiche di concorrenza. Così — sostengono i liberisti — la spcompetitivi, ecc.), ma anche entro un mercato assistenziale «quasi» vero, quando ad esempio le amministrazioni erogano i fondi direttamente ai consumatori sotto forma di voucher affinché questi comprino autonomamente i servizi di cui hanno bisogno (Cave, 2001; Gori, 2001). In un contesto liberista di questo genere, gli operatori sociali (in primis gli assistenti sociali) sono concepiti come case manager stretti, cioè come dei consulenti degli utenti o delle famiglie per acquistare i servizi di cui necessitano (Payne, 1999). L’operatore diviene un esperto di servizio sociale che non eroga più servizi propri o della amministrazione di appartenenza, bensì aiuta i titolari di voucher (o di soldi propri) a comprare sul
mercato le prestazioni sociali e terapeutiche necessarie. Il sistema dei servizi quindi si amplia e si pluralizza attraverso le dinamiche di liberalizzazione e privatizzazione. Diviene un sistema misto, tuttavia sempre più asfittico e controllato nelle sue prestazioni.

A farne le spese maggiori è il «sacerdote delle erogazioni», l’assistente sociale. Nel welfare state classico, l’assistente sociale eroga aiuti, compresi i trattamenti di counseling e i colloqui di assessment, secondo scienza e coscienza, senza badare a spese; nell’ottica liberista l’assistente sociale non dovrebbe sprecare tempo a erogare in prima persona, dovrebbe aiutare i consumatori a comprare da erogatori privati le prestazioni e comporre un pacchetto di servizi individualizzato. Si tratta di una funzione manageriale più che «terapeutica», e c’è da chiedersi quanto sociale sia un operatore di questo genere.

L’altra tendenza importante nelle culture di welfare attuali, che arriva anch’essa
a depotenziare in qualche misura le professioni sociali, è un incipiente disincanto verso la cura e la soluzione dei problemi. Addirittura si respira l’odore di un certo cinismo emergente. Mentre nei decenni scorsi eravamo presi in un eccesso di zelo, una tendenza persino eccessiva a eliminare i problemi di tutti, ora la tendenza è opposta. Prevalgono il pessimismo e la rassegnazione, come dire: di fronte a un tale dilagare di problemi, non possiamo pretendere troppo, facciamo quello che possiamo. La società nelle sue istituzioni si rassegna a tenersi i propri problemi, tanto — in fondo — se li tiene la gente che spesso non ha voce (Bauman, 2000).

In questo spirito di ripiegamento e di paradossale «legittimazione» della ingiustizia sociale, tipicamente postmoderna, si rafforza per contro la tendenza del controllo: le amministrazioni tendono a concentrare i loro sforzi sui doveri istituzionali di intervento coatto, con l’ossessione che non capiti qualcosa di irreparabile di cui possono essere ritenute formalmente responsabili: qualche anziano trovato morto, un minore abusato in famiglia, ecc. Di nuovo, se questo ruolo diviene prevalente, gli assistenti sociali finiscono in gabbia, sempre più presi da funzioni strettissime di servizio sociale (in realtà, una specializzazione troppo spinta sul controllo/tutela potrebbe addirittura prefigurare una professione distinta dal servizio sociale, assegnabile al campo della sicurezza piuttosto che a quello dell’aiuto).


Fabio Folgheraiter Università Cattolica del S. Cuore, Milano

venerdì 27 giugno 2014

Lavoro sociale e servizio sociale ( parte sesta)


È di tutta evidenza che le altre due funzioni sociali di cui si è detto — l’accompagnamento e l’animazione sociale — sono diventate appannaggio anche di altre figure professionali. Parlo per l’Italia, dove questo processo di differenziazione professionale è avvenuto con maggiore forza. Per cui se diciamo «operatore sociale» in Italia possiamo pensare sì a un assistente sociale (chi ha una laurea di classe 39) ma anche a un educatore professionale, a un operatore di strada, a uno psicologo di comunità, a un volontario con esperienza e ben formato, ecc. Nei Paesi anglosassoni non è così: social work vuol dire ancora per gran parte lavoro dell’assistente sociale, perché questo operatore ha saputo mantenersi sui vari livelli operativi — il lavoro di caso, il lavoro con i gruppi, il lavoro di comunità — in modo più fermo. Recentemente, l’IFSW (la Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali) e l’IASSW (l’Associazione Internazionale delle Scuole di Servizio Sociale) hanno preso atto di una tendenza presente in molti paesi europei.

Nella definizione ufficiale di social work approvata a Montreal nel 2000 (Hare, 2004), queste associazioni hanno definito il lavoro sociale un’area pluri-professionale, comprendente almeno due «ordini» professionali: gli assistenti sociali e i pedagogisti sociali (i nostri educatori professionali). Per tutte queste considerazioni, sostengo da anni che sarebbe interesse degli assistenti sociali definirsi esperti di lavoro sociale e non più solo titolari di funzioni esclusive di servizio sociale. Per gli assistenti sociali non è conveniente lasciare l’affascinante campo dell’azione sociale appannaggio (concettualmente parlando) di altre professioni.

Qualora questa scelta «di sistema» fosse difesa e portata all’estremo, gli assistenti sociali resterebbero alla lunga privati dell’ossigeno derivante da un autentico contatto relazionale con la società, rischiando di restare isolati dentro il sistema e quindi di perdere vitalità.Mi pare lampante che, se gli assistenti sociali si rinserrano dentro il sistema istituzionale di welfare e si allontanano dalla società, corrono dei gravi rischi. Passiamo qui alla seconda parte dell’analisi: come i cambiamenti strutturali del sistema di welfare impattano sull’agire professionale degli assistenti sociali.


Fabio Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore, Milano

mercoledì 25 giugno 2014

Lavoro sociale e servizio sociale ( parte quinta)

Spesso, in realtà, uno stesso professionista può essere solo in parte un ingranaggio del sistema. È la condizione bivalente di molti assistenti sociali dipendenti dai servizi pubblici, che per un verso sono lì per far funzionare la macchina del welfare e per un altro sono anche liberi di ragionare per allestire un aggancio originale con la rete che richiede aiuto. Diciamo che questi operatori hanno valenza riflessiva, cioè possono applicare la propria intelligenza per risolvere il problema in modo originale (e non predefinito negli schemi manageriali).

In ogni caso, l’operatore usa quella sua libertà di pensiero e di manovra non per risolvere lui stesso, altrimenti non sarebbe un operatore sociale in senso pieno. Usa la libertà per agganciarsi alla rete che cerca di risolvere, e si propone di accompagnarla e di sostenerla nel suo percorso di fronteggiamento. Questa è una funzione di accompagnamento riflessivo, che un tempo si chiamava casework, ora diciamo forse meglio counseling sociale. Per esempio: immaginiamo la mamma di un giovane disabile che si preoccupa di trovargli un posto di lavoro e che, assieme a una insegnante sensibile e a un volontario di una associazione locale, si rivolge all’assistente sociale del Comune di residenza. Se questa assistente sociale, invece di erogare un servizio predefinito (ad esempio, un inserimento in un laboratorio protetto), si unisce a loro per ragionare assieme su che cosa fare e come fare, portando tutte le risorse cognitive della propria professionalità, realizza un accompagnamento in piena regola. Possiamo poi anche identificare un’altra funzione, solo in parte simile. Dobbiamo pensare per questo a un operatore che, a differenza dell’assistente sociale di cui sopra, non si aggancia a un processo di risoluzione già in atto, al treno in corsa di un problema conclamato che ha stimolato la reazione e l’allarme.

Pensiamo a un esperto sociale che piuttosto stimola e anima un sociale «intorpidito», un sociale che neppure vede i problemi e che comunque non se ne preoccupa più di tanto, come succede di frequente nelle nostre società frantumate e chiuse in se stesse, nella loro corsa inconsapevole verso la postmodernità. In questo senso l’operatore sociale professionale è un esperto visualizzatore di possibili stati «migliori» della vita sociale di una località, un «sognatore etico» che intende realizzare i suoi sogni e per questo è disposto a lavorare, anche duramente, per aiutare la società a desiderarli, così come fa lui. Parliamo a questo proposito di una funzione di animazione/educazione sociale: un lavoro sociale nel senso di «stimolare il sociale a prospettarsi realtà migliori e impegnarsi per raggiungerle». Come esempio di questa importante funzione, immaginiamo un operatore che veda il diffondersi di abitudini o comportamenti «leggeri» dei ragazzi nei confronti dell’alcol e cerchi di dar vita a una azione di sensibilizzazione, contattando giovani attenti al problema che potrebbero coinvolgersi nel progetto e pensarlo assieme a lui.Abbiamo visto quindi che il lavoro sociale si compone pressappoco di queste dimensioni: il servizio sociale istituzionale, il counseling di accompagnamento riparativo, l’animazione/educazione sociale dentro le comunità locali. Queste funzioni possono attirare varie specializzazioni professionali, diverse figure di operatori. Solo l’assistente sociale mi sembra possa vantarsi di poter coprire tutti e tre questi ambiti. Un assistente sociale di un piccolo comune, adesempio, può essere nello stesso tempo: a) tecnico di servizio sociale (pienamente inglobato nella macchina del welfare municipale); b) consulente professionale per la gestione di casi complessi di ordine sia socio-assistenziale che tutelare; c) operatore inserito nei flussi della comunità come agente di cambiamento di atteggiamenti e produttore di capitale sociale. Sfortunatamente, molti assistenti sociali sono ancora mentalmente attratti soprattutto dalla prima funzione, quella più formale e istituzionale.

Si tengono stretti e ben trincerati dietro l’etichetta di servizio sociale, anzi la difendono contro l’uso più largo del termine «lavoro sociale», senza capire che così facendo essi
restringono senza motivo il raggio della loro professionalità. Essi fanno un grave torto alla più importante caratteristica della loro professione, quella di essere la più estesa tra tutte le altre affini presenti nel panorama del welfare attuale. Si potrebbe obiettare: l’assistente sociale ha un monopolio di legge per le funzioni di servizio sociale, nessun altro operatore può esercitarle. Un conto tuttavia è difendere questa esclusiva, un altro affermare che in questa esclusiva si esaurisce l’intera carica professionale.


Fabio Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore,Milano

sabato 21 giugno 2014

Lavoro sociale e servizio sociale ( parte quarta)

Le due filiere

Distinguiamo ora la prassi di lavoro sociale in due grandi filiere. La filiera che porta l’operatore a lavorare dentro schemi organizzati e quella che lo fa lavorare in modi liberi/aperti.L’insieme di tutti gli schemi organizzati di aiuto sociale e di tutti gli automatismi virtuosi costituiscono ciò che chiamiamo il sistema di welfare. Quando unasocietà arriva a definire con leggi e con provvedimenti amministrativi quali sono i problemi che debbono essere affrontati e quali sono, quindi, i diritti dei soggetti sociali a godere dell’assistenza organizzata, quando cioè la politica sociale ha fatto il suo dovere predisponendo un efficiente meccanismo strutturale, molto deve essere ancora fatto affinché il benessere si produca davvero, in pratica. Il sistema di welfare è una macchina che funziona quando si interconnette con i singoli problemi della società da cui è emerso. Questa interconnessione va vista in realtà come una moltitudine di connessioni e di agganci tra le svariate articolazioni del sistema di welfare e la miriade di singoli problemi specifici. Ogni volta che una delle differenti prestazioni previste dal sistema si attiva a proposito, il sistema funziona. Ognuno di questi agganci va oliato e curato ad personam, per così dire. 

È importante che una società modernizzata possieda un «sistema astratto» di welfare razionale e all’altezza delle aspettative. Che i «meccanismi delle cure» siano ben predisposti è essenziale, ma non è sufficiente. Il sistema è cieco e meccanico e da solo non può funzionare. Per far sì che le procedure impersonali si connettano in modo appropriato e sensato alle molteplici realtà umane cui sono destinate, c’è bisogno ogni volta di una mediazione intelligente: una mente umana specializzata a raccordare l’universale delle leggi (del «già codificato per tutti») con le esigenze particolari e uniche del singolo individuo o della singola famiglia o della singola comunità cui quel «welfare» è in potenza destinato. C’è dunque bisogno di un operatore specialista dei meccanismi tecnicoamministrativi che consentono ai diritti sociali concepiti in senso universalistico di trasformarsi in welfare esperito davvero, reale. Sappiamo per esperienza che questo passaggio è accidentato: tra le buone intenzioni astratte (o tra i soldi stanziati dalle leggi) e il benessere effettivo di questo o quel beneficiario, c’è di mezzo il mare. Potremmo definire «servizio sociale» questa delicata mediazione professionale.

È servizio sociale il ruolo di un esperto conoscitore dei meccanismi, anche burocratici, dei sistemi di welfare, i quali «servono» il cittadino con servizi codificati. Il servizio sociale è la difficile e nobile arte di far arrivare ai cittadini i servizi (le prestazioni, le risorse, ecc.) che la società intera decide di mettere in campo tramite le decisioni politiche. Dunque l’assistente sociale esperto di servizio sociale è a servizio della società perché essa possa far arrivare i propri servizi standard (universalistici) a tutta la popolazione che ne ha bisogno/diritto, in accordo al principio di equità (cioè senza far torti palesi, quando le risorse sono scarse). L’esperto di servizio sociale è un tecnico specializzato del welfare istituzionale, specializzato nella erogazione/dispensazione di risorse pubbliche collettive. Tra queste funzioni specializzate, un posto importante spetta al cosidetto «controllo », cioè alla responsabilità di intervenire per proteggere qualcuno da rischi gravi, o da danni che sta subendo, come nel caso di gravi maltrattamenti o abusipsicologici o fisici di minori o di anziani. In questo caso, una società non accetta che certi episodi possano avvenire e definisce regole, standard e modalità per un intervento coatto delle istituzioni, così da impedire azioni considerate appunto orrori inaccettabili. Di nuovo, questi standard/norme/ regole definiti in senso universalistico debbono essere fatti valere in pratica nelle mille contingenze imprevedibili in cui essi vanno sensatamente applicati. 

Il professionista sociale, però, ha anche altri campi aperti oltre a essere un tecnico assistenziale. Può anche fare dell’altro. Esiste un modo di «aiutare la società ad aiutare» che è affatto differente, e riguarda quella modalità che sopra ho definito aperta e libera. Questa è l’altra «gamba» del lavoro sociale, e consiste nella funzione di intercettare l’azione delle persone e delle formazioni sociali che stanno affrontando i loro problemi direttamente, senza attendersi servizi di altri. Qui parliamo ancora della società che si preoccupa del proprio benessere, ma facciamo riferimento non già al sistema o a modi organizzati e generalizzati di risolvere, bensì a percorsi aperti emergenti dall’agire riflessivo (agency) dei soggetti coinvolti. Immaginiamo per intenderci una piccola porzione di società viva, l’insieme di quelle persone che sentono e vivono un determinato problema e cercano in qualche modo di superarlo con le loro stesse mani. Chiunque abbia un problema cerca di risolverlo, ed è il suo «tentativo di risolvere» che ci fa capire che c’è il problema (Folgheraiter, 2007). La strada migliore per chi sente un problema è quella di interconnettersi con le proprie relazioni sociali, cioè di rivolgersi a persone che lui/lei conosce, per capire se può avere aiuto per agire assieme. Così facendo si crea una microsocietà di interessati a risolvere, una entità che io chiamo «rete di fronteggiamento» (Folgheraiter, 1998; 2000; 2007). 

A volte succede che questa piccola società, arrabattandosi a fronteggiare il problema così come lei stessa l’ha definito, ce la fa da sola, arrivando a gestire autonomamente il proprio disagio. In questo caso, nulla si vede all’esterno e nessun problema arriva all’attenzione del sistema dei servizi: la società funziona, fa il proprio «lavoro sociale» senza bisogno di essere aiutata. Se invece le cose non vanno così bene, se la rete fatica a raggiungere il benessere cui aspira, che cosa può succedere? Ci sono due possibilità. Può succedere che qualcuna di queste persone si rivolga al «sistema» e bussi alla porta di qualche servizio sociale per avere dei servizi, a volte pretendendo non solo una prestazione, ma la completa soluzione del proprio problema.

Ma può succedere anche che quella società che si arrabatta incontri un professionista «libero», un esperto che è appunto sciolto dal vincolo di una determinata erogazione, un operatore che non è (solo) un ingranaggio del sistema, ma una mente intelligente capace di ragionare in modo sciolto


Fabio Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore,Milano

mercoledì 18 giugno 2014

Il lavoro sociale come prassi professionale ( parte terza)

Social Work Practice 

Il lavoro sociale, oltreché come ambito conoscitivo, viene in genere meglio inteso anche come prassi professionale (social work practice). Pensiamo allora a una specializzazione della azione sociale per il benessere. Abbiamo detto che la società intera si attiva sempre per il proprio benessere, come può. Nelle società moderne tuttavia una parte di essa si specializza in questa azione di riparazione/tutela facendone un mestiere. Gli operatori sociali agiscono la parte del buon samaritano per ruolo professionale. In una nota definizione di Lubove (1965), gli operatori sociali vengono definiti «altruisti per professione». Come noto, la spinta verso questa specializzazione viene in gran parte dalla «grande committenza» del welfare state contemporaneo. L’ambito conoscitivo scientifico e l’ambito tecnico operativo sono due livelli legati, ma indipendenti. Le professioni di aiuto, e sociali in particolare, si propongono di produrre welfare utilizzando al meglio la scienza disponibile ma anche, e forse soprattutto, le capacità riflessive immediate di ogni interessato (il professionista medesimo o le altre persone con cui è in contatto) (Folgheraiter, 2007; Hoggett, 2001). Per fare il bene di altri, l’operatore professionale usa un opportuno miscuglio di scienza e coscienza: informa di scienza la coscienza e con la coscienza controlla la scienza. L’importanza di questa riflessività, e dello stesso buon senso degli operatori sociali, si comprende meglio pensando che c’è stato un tempo in cui la scienza del lavoro sociale «non c’era», mentre il lavoro sociale pratico (le professioni sociali) sì. Senza le teorie, gli operatori ragionavano con la loro testa attingendo dalla propria abilità d’aiuto specializzatasi attraverso la loro esperienza personale. Quando il procedere per tentativi ed errori produceva un buon risultato — quando le prassi sperimentate si rivelavano «buone» —, quel sapere così prodotto veniva istituzionalizzato, cioè veniva trattenuto nelle abitudini e nelle procedure, prima del singolo operatore e del sistema professionale (facendo emergere il lavoro sociale) e poi del sistema di welfare più in generale (facendo emergere questa o quella social policy) (Bortoli, 2006). Con queste affermazioni non vogliamo negare che una seria base scientifica sia essenziale per ogni profilo professionale. Tuttavia, così come abbiamo sopra segnalato la necessità per i professionisti del sociale di essere nel contempo dentro e fuori il sistema del welfare, così diciamo che esiste la stessa necessità di essere nel contempo dipendenti e indipendenti (mentalmente autonomi) dalle prescrizioni scientifiche generalizzanti. Il lavoro sociale è quindi una professionalità di aiuto, un «saper aiutare» con metodo e sapienza. Inoltre, è un aiutare adottando un taglio preciso, che deve rimanere sempre vivo: quello sociale. Ribadiamolo: è la società (il sociale) che aiuta (Domenach et al., 1972), e il professionista aiuta la società ad aiutare se stessa: non solo i propri membri deboli o le famiglie /comunità più disagiate, ma tutti coloro che aspirano a un maggiore benessere. Il professionista stesso è un membro della società cosicché, quando egli aiuta, è in ultimo la società che lo fa tramite lui. Tuttavia, in quanto operatore «sociale», egli indirizza la sua azione non già a risolvere problemi in prima persona, raccogliendo in toto la delega di cui sopra, bensì ad aiutare la stessa società a risolvere le problematiche.


Fabio Folgheraiter, Università Cattolica del S. Cuore, Milano

domenica 15 giugno 2014

Cos’è il lavoro sociale e il lavoro sociale come disciplina scientifica ( parte seconda)

Cos’è il lavoro sociale

Una seconda riflessione preliminare riguarda la natura di quell’area professionale che la tradizione internazionale chiama social work. In particolare vorrei chiarire questo punto: perché a volte usiamo l’espressione lavoro sociale e a volte servizio sociale? Il lavoro sociale è un contenitore di funzioni ben distinte e differenziate, che
dovremmo riuscire a non confondere. Possiamo definire il lavoro sociale come l’arte/professione di attivare la società per risolvere specifici problemi di vita di particolari persone, gruppi o comunità (più che «per risolvere problemi», ritengo opportuno dire «per potenziare specifiche soluzioni già in atto»). Mi soffermo sul termine lavoro, che vorrei connotare nel suo significato più generale. Dobbiamo intendere che siamo davanti a uno sforzo, una fatica, che viene in genere riferita alla necessità di guadagnarsi il pane, cioè all’esercizio di un mestiere, ma non necessariamente (pensiamo, ad esempio, al lavoro organizzato e consistente di un volontario). In ogni caso facciamo riferimento a un «interessarsi di» o a un «prendersi a cuore» i singoli problemi umani ed esistenziali concreti presenti in una società determinata. In ultimo il lavoro sociale è la presa a cuore della società da parte di se stessa: il soggetto che lavora è la società stessa che ha il problema e che si propone di risolverlo, in vista del suo stesso welfare (o well being). Tipicamente si dice che il lavoro sociale è una disciplina scientifica (una scienza) e un metodo o una prassi operativa di taglio professionale.

Il lavoro sociale come disciplina scientifica
Il lavoro sociale come scienza (social work theory) studia i modi, le possibilità e anche le tecnicità del risolversi dei concreti problemi sociali dentro la società stessa (Folgheraiter, 1998). Questa scienza, stretta parente della sociologia più chedella psicologia o delle arti mediche, è una delle più difficili e sofisticate, e forse riveste anche un ruolo non indifferente per lo stesso futuro della umanità. È vero che le società se la sono sempre cavata anche senza l’auto-riflessione, sono sempre sopravvissute alle loro difficili condizioni di vita facendo leva sulle capacità intuitive di adattamento dei propri membri (spesso peraltro passando per costi umani e sofferenze e lacrime inenarrabili). È anche vero tuttavia che i cambiamenti in atto oggi inducono spiazzamenti potenziali delle persone o delle famiglie oltremodo devastanti e subdoli. Nonostante i nostri sistemi di protezione sociale siano sempre all’erta, notevoli problemi si infiltrano dappertutto: pensiamo solo al drammatico cambiamento della struttura della popolazione con le necessità di cura assistenziale; al mescolamento interetnico con frammentazioni delle comunità locali; alla caduta delle capacità genitoriali delle famiglie; al diffondersi endemico di nuove dipendenze da piaceri acuti, non solo dalle classiche droghe, e così via. In più, le nostre aspettative di benessere — come cittadini della alta modernità — sono molto elevate. Siamo sempre meno capaci di sopportare e di accettare le sofferenze. Stiamo perdendo l’attitudine alla resilienza, come dice Cyrulnik (Cyrulnik e Malaguti, 2005). Per questo, capire «scientificamente» come possiamo cavarcela con il benessere, come la società civilizzata risolverà il problema di leccarsi le ferite nel prossimo futuro, è una questione di enorme rilevanza (potremmo fare un ragionamento analogo per le società in via di sviluppo o anche per quelle sottosviluppate). Il lavoro sociale non studia il tema del welfare in astratto e in generale. Il compito di capire quali determinazioni strutturali condizionano la qualità della vita della popolazione in senso lato, e come il sistema politico amministrativo possa predisporre misure di protezione e/o di assistenza di impatto universalistico/statistico, è notoriamente proprio della politica sociale. Il lavoro sociale studia il farsi delle soluzioni sociali di portata particolaristica. Questo tuttavia non semplifica l’oggetto, anzi lo rende enormemente più complicato come opportunamente ci ricorda Boudon (1991).

Fabio Folgheraiter
Università Cattolica del S. Cuore,

Milano

venerdì 13 giugno 2014

Le professioni sociali nel contesto dei sistemi di welfare

I sistemi di welfare attraversano profondi processi di cambiamento, che investono inevitabilmente anche le professioni sociali. La professione dell’assistente sociale è quella forse più incardinata nel welfare state: il servizio sociale è la difficile arte di far arrivare ai cittadini i servizi che la società decide di mettere in campo tramite le decisioni politiche. Ma il lavoro sociale ha anche altri campi aperti: quelli dell’«aiutare la società ad aiutare», attraverso l’accompagnamento riflessivo e l’animazione/educazione sociale. Molti assistenti sociali, tuttavia, si collocano soprattutto nella prima funzione, quella più istituzionale. Così, si restringe il raggio della loro professionalità, facendo torto alla più importante caratteristica della loro professione, quella di essere la più estesa tra tutte le altre affini presenti nel panorama del welfare attuale.

Come è noto, i sistemi di welfare stanno cambiando: possiamo perfino affermare che siamo nei pressi di un vortice, anche se non sempre percettibile, dove tutto può essere messo in discussione e dove i principi cardine del pensiero sociale sono sottoposti a sollecitazioni forti e rischiano anche di essere sovvertiti. Il cambiamento investe, in alto, le logiche di sistema e i valori di riferimento delle politiche socio-assistenziali. Inevitabilmente esso impatta anche sulle professioni sociali. Questo contributo propone una riflessione in merito a quali modalità e a quale segno assuma tale impatto. Come influiscono i cambiamenti in atto sulle professioni sociali? In che modo le condizionano? Quali prospettive ci si aprono davanti?

Per affrontare questi interrogativi, in via preliminare è opportuno inquadrare la collocazione delle professioni sociali nel contesto dei sistemi di welfare. L’ambito di lavoro diretto dei professionisti sociali è il cosiddetto livello di campo (fieldwork), l’interfaccia tra le organizzazioni di cura (i vari servizi sociali pubblici e privati, non profit e profit) e le realtà sociali che «hanno i problemi» e «chiedono» di poterli risolvere. Quando ci domandiamo quali siano le sfide e le prospettive del lavoro sociale ci collochiamo a questo livello «campale», detto frontline. Il lavoro sociale è lo spazio dove collochiamo le professioni sociali, quali che siano, nel loro diretto operare. Il livello sovrastante o inclusivo a quello di campo è proprio della politica sociale: si tratta del sistema dei servizi sociali colto nella sua integrità (la Legge 328/2000 parla di «sistema integrato dei servizi»), sistema che può essere pensato in strati o livelli sovrapposti, vale a dire il livello locale, regionale, nazionale e anche sovranazionale. Il sistema dei servizi socio-assistenziali, a ciascuno di questi livelli, può a sua volta venire idealmente suddiviso su due linee ben distinguibili: (a) un fronte immediatamente sopra gli operatori di campo, costituito dal management, cioè dalla dirigenza delle singole organizzazioni di cui i professionisti sono alle dipendenze; (b) un fronte connettivo più largo, vale a dire il livello della direzione (o della governance) dell’intero sistema, che chiamiamo livello politico-amministrativo (policy making). Per fare un esempio, il livello manageriale ci rimanda a un consiglio direttivo di una associazione di volontariato o alla direzione sociale di una ASL.

Il policy making ci rimanda a un assessorato comunale alle politiche sociali o a una commissione legislativa regionale o parlamentare, ecc.Lo stile, la qualità, l’efficacia del lavoro sociale sul campo dipendono in modo marcato dalla configurazione del sistema, dagli assetti organizzativi degli enti in cui l’operatore lavora e dagli orientamenti di politica sociale da cui a loro volta i singoli enti dipendono.Ciò non significa che gli operatori siano semplici esecutori/realizzatori delle politiche sociali sancite nella legislazione o nei piani sociali locali, e neppure delle stesse direttive o linee guida dei propri singoli enti di appartenenza. Un professionista possiede autonomia e potere discrezionale, non può mai essere una mera rotellina funzionale integrata nel sistema. Il professionista sociale deve essere in grado di affrontare i singoli problemi così come la sua ragionevolezza e la sua scienza gli suggeriscono. Non è un esecutore: se così fosse non sarebbe un professionista, bensì l’addetto a un mestiere (Prandstraller, 1980).

Tuttavia, il marchingegno strutturale in cui l’operatore è inserito — il sistema, lo statuto e l’organizzazione dell’ente, la legge, ecc. — lo condiziona in vari modi, e spesso anche pesantemente. Per fare solo un esempio, pensiamo alla tendenza, oggi molto evidente, a sfruttare il «potere di condizionamento» del sistema per migliorare l’efficienza degli operatori, controllando come impiegano il loro tempo al fine di risparmiare sulla spesa. Gli stipendi dei professionisti, in tutte le organizzazioni, costituiscono la maggiore fonte di costo. Per questo i manager cercano di incanalare dentro procedure ben definite le loro prassi, in modo da evitare sprechi e anche di prevedere la produttività e regolarla dall’alto. Questa strategia, detta «proceduralismo », limita la «creatività» del professionista e incanala le sue azioni in schemi predefiniti. Tutto ciò si traduce a volte in qualche vantaggio. Tuttavia, quando questi schemi sono troppo stretti a fronte della imprevedibile realtà dei bisogni, la professionalità rischia di venir meno (Harris, 1998; Clarke, 1998; Dominelli, 2004a; 2004b)

Fabio Folgheraiter Università Cattolica del S. Cuore, Milano

giovedì 12 giugno 2014

L'Assistente Sociale secondo il Ministero di Giustizia.

La figura professionale dell'assistente sociale e il Dipartimento  Giustizia Minorile.

La figura professionale dell'assistente sociale nasce nella prima meta' del secolo scorso nelle societa' anglosassoni, Inghilterra in particolare, dove Lord Beveridge, promulgando la "Poor Law", da inizio alla moderna concezione di "Stato dei servizi". La professione dell'assistente sociale deriva, storicamente, dalla antiche confraternite di beneficienza e carita' che, soprattutto per ispirazione cattolica, si sono ben presto sviluppate in tutto il mondo occidentale.

E' comunque a partire dagli anni cinquanta che essa ha acquisito una connotazione maggiormente professionale per abbandonare, progressivamente, la vecchia immagine legata all'assistenzialismo di tipo volontaristico soprattutto femminile. Nel tempo quella dell'assistente sociale e' diventata una professione essenziale nel panorama dei servizi sociali di una societa' avanzata. La sua professionalita' viene riconosciuta anche attraverso la sempre maggiore specializzazione dell'iter necessario per conseguire l'abilitazione alla professione (Laurea in servizio sociale, laurea specialistica, esame di Stato).

La professione dell'assistente sociale e' promossa e tutelata da un Ordine Professionale Nazionale e da ordini dislocati in ogni regione d'Italia. L'assistente sociale presta la propria opera nei piu' diversi settori dei servizi: e' prevista la sua presenza nei servizi sociali territoriali, nei consultori familiari, nei servizi piu' specialistici, (Psichiatria, Tossicodipendenze, Neuro psichiatria infantile), negli ospedali, nelle carceri e negli istituti penali per i minorenni, nelle comunita', nel privato sociale e in molte altre realta' connesse alla rete dei servizi.
Pur rimanendo essenzialmente una figura che svolge il proprio ruolo nell'aiuto e quindi nel rapporto interpersonale con la persona in stato di bisogno, essa nel tempo si e' affacciata con successo anche nel campo della progettazione di interventi di politica sociale, di progettazione e gestione di servizi con compiti di coordinamento, direzione, sperimentazione di interventi, ricerca ecc. ecc.

In realta' non esiste una figura standard di assistente sociale ma ogni operatore ha finalita' e mansioni differenti che derivano dal contesto in cui lavora, dagli obiettivi del servizio in cui e' inserito e dalla direttive di politica sociale presenti in un dato territorio.

L'assistente sociale lavora spesso in integrazione con altre professioni, curando, attraverso il lavoro d'equipe, la salvaguardia dell'ottica sociale e fungendo spesso da punto di riferimento per psicologi, psichiatri, sociologi, educatori, medici, ecc. ecc. Particolarmente importante e' il ruolo che espleta in collaborazione con i Tribunali per i Minorenni e i Tribunali Ordinari.
Nel contesto della Giustizia Minorile l'assistente sociale fa parte dell'equipe multiprofessionale che segue i ragazzi e uno dei principali interlocutori dell'Autorita' Giudiziaria.
Il suo lavoro, svolto in equipe, si esprime attarverso l'attivazione di progetti personalizzati per i ragazzi, il rapporto interpersonale con il giovane e la sua famiglia nonche' attraverso la stesura di relazioni psicosociali ad uso giudiziario.

Quella dell'assistente sociale e' dunque una professione moderna ed estremamente varia, in cui ad abilita' nel campo relazionale devono essere aggiunte creativita', intelligenza e passione. 

La professione dell'assistente sociale e' da anni legalmente riconosciuta e si diventa assistente sociale attraverso un corso di laurea ormai presente in molte Universita' italiane.

da http://www.cgmtorino.it/assistentesociale.htm

mercoledì 11 giugno 2014

Progettista sociale e progetto sociale

Progettista Sociale?

«… È una persona capace non solo di realizzare progetti sociali ma anche di idearli e renderli sostenibili, applicando metodi di project management mutuati dal profit…».

Nell’immaginario collettivo il progettista sociale è la persona che, indipendentemente dalle conoscenze specifiche del bisogno sul quale è chiamato a intervenire, possiede competenze tecniche relative all’azione del progettare. Per realizzare un buon progetto deve dotarsi di metodo e di strumenti, elementi chiave anche per coloro che operano in un soggetto for profit. Al progettista si chiede di saper concretizzare un’idea e renderla una reale possibilità di cambiamento. Molto spesso, però, la spasmodica attenzione agli strumenti lascia in secondo piano gli obiettivi e i metodi di progettazione. Nella progettazione sociale gli strumenti teorici e le metodologie devono adattarsi alle specificità del settore. Non sono sufficienti solo le esperienze acquisite sul campo (“il fare”) oppure la semplice applicazione di metodologie (“il sapere”). Occorre promuovere un “saper fare” attraverso il quale analizzare il contesto in cui opera l’organizzazione, la sua genesi, le successive trasformazioni organizzative e, soprattutto, i bisogni sui quali si intende intervenire.
Occorre definire gli obiettivi del progetto e il suo impatto sui beneficiari, ascoltare i volontari e gli altri operatori coinvolti. Occorre infine individuare e analizzare gli stakeholders dell’iniziativa e dell’organizzazione, sapere scegliere e utilizzare gli strumenti di progettazione più adeguati. Questi ultimi hanno una grande rilevanza sia nelle fasi di costruzione sia in quelle di gestione del progetto. Tutti elementi che fanno del progettista sociale una professione, non solo una predisposizione personale. Il Progettista sociale ha ad oggetto dell’attività professionale l’ideazione, pianificazione, redazione, gestione, controllo e monitoraggio, valutazione e rendicontazione di progetti di intervento sociale e socio sanitario sviluppati tanto in risposta a bandi, avvisi pubblici, gare, call for proposals e altre opportunità di Enti Erogatori di natura sia pubblica che privata, quanto autonomamente dall’ente per cui il progettista opera. 
 


Il Progettista Sociale svolge la propria attività in forma singola o associata, come dipendente e collaboratore, anche volontario, di enti e associazioni di diritto tanto privato quanto pubblico o come consulente delle stesse, abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, ai fini del miglioramento delle condizioni umane, economiche, sociali, ambientali, di salute, di partecipazione civile e di partecipazione democratica, incluso il contrasto di ogni forma di discriminazione, delle comunità degli uomini e di specifici target all’interno di queste. Infine una definizione di “progetto sociale”: un ciclo di attività tra loro collegate e coerenti e circoscritte in un tempo definito e limitato tese a realizzare risultati, prodotti, servizi, cambiamenti sociali e/o culturali misurabili, anche dal punto di vista dell’impatto, nel contesto di riferimento, unici e di apprezzabile utilità per i Beneficiari. Il progetto è promosso tanto in risposta a bandi, avvisi pubblici, gare, call for proposals e altre opportunità di Enti Erogatori di natura sia pubblica che privata, quanto autonomamente dall’ente per cui il progettista opera.






venerdì 6 giugno 2014

IV Corso di Progettazione Sociale presso il Dam Entropia - Unical.


Riprendiamo il nostro blog dopo un periodo di assenza. E riprendiamo dal nostro corso  dalle attenti e interessate corsiste che malgrado l'intromissione della fotocamera sono concentrate e assorte. Un buon lavoro a tutte.