Le tendenze in atto
Il
sistema dei servizi è attraversato, come abbiamo detto all’inizio,
da forti venti di cambiamento. Stanno cambiando i paradigmi, le basi
portanti della cultura tradizionale del welfare state postbellico,
per effetto del motivo più prosaico: il welfare costa e costa sempre
di più. Da anni molti pensatori, non solo quelli liberisti, sono
convinti che non sia più sostenibile nella sua forma convenzionale.
Non è sostenibile per le note dinamiche di globalizzazione
economica, le quali non permettono più agli Stati occidentali con
grandi apparati di welfare di reggere la concorrenza con Stati
emergenti che hanno la fortuna di non dover gravare le loro imprese
di tasse per finanziare quei servizi sociali che essi in effetti non
hanno.
Nei
decenni passati si era convinti che le funzioni universalistiche di
servizio sociale avrebbero potuto e dovuto crescere fino al punto di
coprire tutti i bisogni della società. Questo sembrava l’approdo
ideale: una copertura di servizi così fine e capillare da
intercettare tutti i problemi. Ora si capisce bene che questo
progetto non è realistico, forse persino assurdo vedendo come si
complicano e si aggrovigliano i problemi nei contesti postmoderni.
Senza rischiare di fare come la volpe con l’uva, potremmo anche
azzardare a dire che quel disegno onnicomprensivo non sia neppure
auspicabile, perché andrebbe a depotenziare le capacità naturali
delle comunità locali di risolvere i propri problemi, forse la
risorsa più preziosa su cui dovremmo investire per contrastare il
degrado avanzante.
Comunque
sia, la indubbia tendenza in atto, portata dalla cultura neoliberale,
è la seguente: quella di alleggerire e razionalizzare i sistemi di
welfare istituzionali. Razionalizzazione nel campo del welfare
vuol dire, in primis, non rincorrere più i bisogni con
servizi sempre maggiori, in una logica incrementale sconnessa, bensì
fissare dei limiti precisi alla spesa sociale. Inoltre vuol dire
svincolare i servizi sociali dalla pubblica amministrazione e creare
un sistema misto (welfare mix) regolato secondo logiche di
mercato (Folgheraiter, 2003). In sintesi: lo Stato stanzia dei fondi
ben limitati, questi fondi vanno a finanziare servizi che
tendenzialmente dovrebbero essere gestiti da quei soggetti privati
che abbiano dimostrato di essere i più efficienti, attraverso gare
di appalto o comunque sottoponendosi a dinamiche di concorrenza. Così
— sostengono i liberisti — la spcompetitivi, ecc.), ma anche
entro un mercato assistenziale «quasi» vero, quando ad esempio le
amministrazioni erogano i fondi direttamente ai consumatori sotto
forma di voucher affinché questi comprino autonomamente i
servizi di cui hanno bisogno (Cave, 2001; Gori, 2001). In un contesto
liberista di questo genere, gli operatori sociali (in primis gli
assistenti sociali) sono concepiti come case manager stretti,
cioè come dei consulenti degli utenti o delle famiglie per
acquistare i servizi di cui necessitano (Payne, 1999). L’operatore
diviene un esperto di servizio sociale che non eroga più servizi
propri o della amministrazione di appartenenza, bensì aiuta i
titolari di voucher (o di soldi propri) a comprare sul
mercato
le prestazioni sociali e terapeutiche necessarie. Il sistema dei
servizi quindi si amplia e si pluralizza attraverso le dinamiche di
liberalizzazione e privatizzazione. Diviene un sistema misto,
tuttavia sempre più asfittico e controllato nelle sue prestazioni.
A
farne le spese maggiori è il «sacerdote delle erogazioni»,
l’assistente sociale. Nel welfare state classico, l’assistente
sociale eroga aiuti, compresi i trattamenti di counseling e i
colloqui di assessment, secondo scienza e coscienza, senza badare a
spese; nell’ottica liberista l’assistente sociale non dovrebbe
sprecare tempo a erogare in prima persona, dovrebbe aiutare i
consumatori a comprare da erogatori privati le prestazioni e comporre
un pacchetto di servizi individualizzato. Si tratta di una funzione
manageriale più che «terapeutica», e c’è da chiedersi quanto
sociale sia un operatore di questo genere.
L’altra
tendenza importante nelle culture di welfare attuali, che arriva
anch’essa
a
depotenziare in qualche misura le professioni sociali, è un
incipiente disincanto verso la cura e la soluzione dei problemi.
Addirittura si respira l’odore di un certo cinismo emergente.
Mentre nei decenni scorsi eravamo presi in un eccesso di zelo, una
tendenza persino eccessiva a eliminare i problemi di tutti, ora la
tendenza è opposta. Prevalgono il pessimismo e la rassegnazione,
come dire: di fronte a un tale dilagare di problemi, non possiamo
pretendere troppo, facciamo quello che possiamo. La società nelle
sue istituzioni si rassegna a tenersi i propri problemi, tanto — in
fondo — se li tiene la gente che spesso non ha voce (Bauman, 2000).
In
questo spirito di ripiegamento e di paradossale «legittimazione»
della ingiustizia sociale, tipicamente postmoderna, si rafforza per
contro la tendenza del controllo: le amministrazioni tendono a
concentrare i loro sforzi sui doveri istituzionali di intervento
coatto, con l’ossessione che non capiti qualcosa di irreparabile di
cui possono essere ritenute formalmente responsabili: qualche anziano
trovato morto, un minore abusato in famiglia, ecc. Di nuovo, se
questo ruolo diviene prevalente, gli assistenti sociali finiscono in
gabbia, sempre più presi da funzioni strettissime di servizio
sociale (in realtà, una specializzazione troppo spinta sul
controllo/tutela potrebbe addirittura prefigurare una professione
distinta dal servizio sociale, assegnabile al campo della sicurezza
piuttosto che a quello dell’aiuto).
Fabio
Folgheraiter Università Cattolica del S. Cuore, Milano