giovedì 3 luglio 2014

Servizio sociale e lavoro sociale. Quali prospettive? ( parte ottava )

La società che si prende cura

L’evidente ripiegamento in atto dei sistemi di welfare crea tuttavia delle controspinte. Emerge una nuova tendenza, che mi sembra la più interessante dal punto di vista professionale, nel senso di consentire un esercizio più alto di discrezionalità. Questa tendenza è quella che Donati chiama societaria (Donati, 2000; 2002). Tale approccio avanza una idea del sistema di protezione sociale che non sia «difensivo» o «alternativo» rispetto alle necessità della società civile ma un sistema che, per così dire, si rotoli in essa. Non un sistema di servizi che miri a risolvere i problemi della società (salvo poi ben presto perdere coraggio e lasciar perdere, come abbiamo visto), ma un sistema che sia in relazione con la società che si prende cura. Immaginiamo un sistema istituzionale ben connesso con quella parte di società civile che esprime capacità, competenze, motivazioni a impegnarsi nella soluzione associata e condivisa dei problemi collettivi. In realtà, non si tratta di un mero esercizio di immaginazione, dato che possiamo contare ormai su innumerevoli evidenze che le istituzioni di welfare possono realizzare proficue connessioni di questo genere. In tale ottica, l’operatore sociale sarebbe davvero un autentico lavoratore del sociale in quanto potrebbe svolgere a pieno regime quelle funzioni che sopra abbiamo chiamato di accompagnamento o di animazione sociale. L’operatore sociale è inteso qui come un operatore di rete, un operatore sociale nel vero senso del termine, stimolatore di capitale sociale (Folgheraiter, 1998; 2004; 2007).

Il dato attualmente prevalente è che questa azione sociale di fronteggiamento comunitario risulta più fluida ed efficace nelle realtà di terzo o di quarto settore (o nella stessa libera professione, intesa in senso proprio). Nell’ente pubblico le funzioni professionali, a parte eccezioni importanti, sembrano andare a ripiegarsi sulle garanzie e sulle tutele di base. Non ritengo che questa tendenza sia inevitabile, ma tale sembra essere al momento. Il mio intento qui è analitico: non voglio lasciare intendere che vi siano funzioni sociali migliori o più nobili di altre. Le funzioni amministrative o puramente tecniche sono importanti e vanno svolte con competenza e passione come le altre. È indubbio tuttavia che un operatore poliedrico come un assistente sociale deve essere formato a concepire sempre tutto il fronte del social work, in particolare a lavorare sempre con la mente aperta ai processi societari, sapendo che questi processi sono vitali e insopprimibili. L’operatore sociale deve comunque sempre sapere che nessun sistema o marchingegno di ingegneria sociale — servizio organizzato o prestazione standard — può bypassare la società o privarla del potere (diritto) di azione competente. Empowerment è il termine che indica questo genere di sensibilità (Folgheraiter e Bortoli, 2004). Per questo auspicherei nella formazione di base degli assistenti sociali una seria «applicazione» degli studenti su tutte queste funzioni, per assimilarle nella loro unitarietà.

Nella vita professionale poi, auspicherei che ciascun operatore possa esercitarle tutte almeno in parte, anche prevedendo periodici avvicendamenti. Per un operatore sociale è vitale assimilare la pienezza delle competenze. Pare questa l’unica strada nota che consenta al professionista di non rinsecchire la propria sensibilità di percepire i flussi societari, le emozioni e i desideri delle persone. Per esercitare la professione dell’assistente sociale, l’operatore deve stare sempre in contatto con le aspirazioni costruttive delle persone nei loro mondi della vita. L’operatore è sociale in quanto sa ascoltare, dialogare e imparare quale soluzione eticamente accettabile è possibile che emerga.

Sarebbe un errore pensare che questa piena connessione riflessiva non sia possibile nel lavoro sociale dato che si occupa degli «ultimi», i quali in effetti troppo spesso sono lasciati senza voce e senza possibilità di espressione. Considerare le persone deboli incapaci di «sentire» la propria vita e di poterla reindirizzare sarebbe un avvilente paradosso per il lavoro sociale, lo smacco estremo. La sconnessione dalle persone è spesso motivata da buone intenzioni, come l’assillo di risolvere i loro problemi o di fare per loro ciò che è prescritto dai protocolli. Una tale giustificazione tuttavia non attenua, anzi aggrava, l’impressione di disorientamento professionale. L’ascolto delle aspirazioni delle persone e delle loro volontà di fare il bene è il primo dovere e il primo piacere di un operatore sociale degno di questo nome.

Fabio Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore - Milano

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