La
società che si prende cura
L’evidente
ripiegamento in atto dei sistemi di welfare crea tuttavia delle
controspinte. Emerge una nuova tendenza, che mi sembra la più
interessante dal punto di vista professionale, nel senso di
consentire un esercizio più alto di discrezionalità. Questa
tendenza è quella che Donati chiama societaria (Donati, 2000;
2002). Tale approccio avanza una idea del sistema di protezione
sociale che non sia «difensivo» o «alternativo» rispetto alle
necessità della società civile ma un sistema che, per così dire,
si rotoli in essa. Non un sistema di servizi che miri a risolvere i
problemi della società (salvo poi ben presto perdere coraggio e
lasciar perdere, come abbiamo visto), ma un sistema che sia in
relazione con la società che si prende cura. Immaginiamo un
sistema istituzionale ben connesso con quella parte di società
civile che esprime capacità, competenze, motivazioni a impegnarsi
nella soluzione associata e condivisa dei problemi collettivi. In
realtà, non si tratta di un mero esercizio di immaginazione, dato
che possiamo contare ormai su innumerevoli
evidenze che le istituzioni di welfare possono realizzare proficue
connessioni di questo genere. In tale ottica, l’operatore sociale
sarebbe davvero un autentico lavoratore del sociale in quanto
potrebbe svolgere a pieno regime quelle funzioni che sopra abbiamo
chiamato di accompagnamento o di animazione sociale. L’operatore
sociale è inteso qui come un operatore di rete, un operatore
sociale nel vero senso del termine, stimolatore di capitale
sociale (Folgheraiter, 1998; 2004; 2007).
Il
dato attualmente prevalente è che questa azione sociale di
fronteggiamento comunitario risulta più fluida ed efficace nelle
realtà di terzo o di quarto settore (o nella stessa libera
professione, intesa in senso proprio). Nell’ente pubblico le
funzioni professionali, a parte eccezioni importanti, sembrano andare
a ripiegarsi sulle garanzie e sulle tutele di base. Non ritengo che
questa tendenza sia inevitabile, ma tale sembra essere al momento. Il
mio intento qui è analitico: non voglio lasciare intendere che vi
siano funzioni sociali migliori o più nobili di altre. Le funzioni
amministrative o puramente tecniche sono importanti e vanno svolte
con competenza e passione come le altre. È indubbio tuttavia che un
operatore poliedrico come un assistente sociale deve essere formato a
concepire sempre tutto il fronte del social work, in
particolare a lavorare sempre con la mente aperta ai processi
societari, sapendo che questi processi sono vitali e insopprimibili.
L’operatore sociale deve comunque sempre sapere che nessun sistema
o marchingegno di ingegneria sociale — servizio organizzato o
prestazione standard — può bypassare la società o privarla del
potere (diritto) di azione competente. Empowerment è il
termine che indica questo
genere di sensibilità (Folgheraiter e Bortoli, 2004). Per questo
auspicherei nella formazione di base degli assistenti sociali una
seria «applicazione» degli studenti su tutte queste funzioni, per
assimilarle nella loro unitarietà.
Nella
vita professionale poi, auspicherei che ciascun operatore possa
esercitarle tutte almeno in parte, anche prevedendo periodici
avvicendamenti. Per un operatore sociale è vitale assimilare la
pienezza delle competenze. Pare questa l’unica strada nota che
consenta al professionista di non rinsecchire la propria sensibilità
di percepire i flussi societari, le emozioni e i desideri delle
persone. Per esercitare la professione dell’assistente sociale,
l’operatore deve stare sempre in contatto con le aspirazioni
costruttive delle persone nei loro mondi della vita. L’operatore è
sociale in quanto sa ascoltare, dialogare e imparare quale
soluzione eticamente accettabile è possibile che emerga.
Sarebbe
un errore pensare che questa piena connessione riflessiva non sia
possibile nel lavoro sociale dato che si occupa degli «ultimi», i
quali in effetti troppo spesso sono lasciati senza voce e senza
possibilità di espressione. Considerare le persone deboli incapaci
di «sentire» la propria vita e di poterla reindirizzare sarebbe un
avvilente paradosso per il lavoro sociale, lo smacco estremo. La
sconnessione dalle persone è spesso motivata da buone intenzioni,
come l’assillo di risolvere i loro problemi o di fare per loro ciò
che è prescritto dai protocolli. Una tale giustificazione tuttavia
non attenua, anzi aggrava, l’impressione di disorientamento
professionale. L’ascolto delle aspirazioni delle persone
e delle loro volontà di fare
il bene è il primo
dovere e il primo piacere di un operatore sociale degno di questo
nome.
Fabio
Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore - Milano
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