lunedì 30 giugno 2014

Servizio sociale e nuovi scenari di welfare. ( parte settima)

Le tendenze in atto

Il sistema dei servizi è attraversato, come abbiamo detto all’inizio, da forti venti di cambiamento. Stanno cambiando i paradigmi, le basi portanti della cultura tradizionale del welfare state postbellico, per effetto del motivo più prosaico: il welfare costa e costa sempre di più. Da anni molti pensatori, non solo quelli liberisti, sono convinti che non sia più sostenibile nella sua forma convenzionale. Non è sostenibile per le note dinamiche di globalizzazione economica, le quali non permettono più agli Stati occidentali con grandi apparati di welfare di reggere la concorrenza con Stati emergenti che hanno la fortuna di non dover gravare le loro imprese di tasse per finanziare quei servizi sociali che essi in effetti non hanno.


Nei decenni passati si era convinti che le funzioni universalistiche di servizio sociale avrebbero potuto e dovuto crescere fino al punto di coprire tutti i bisogni della società. Questo sembrava l’approdo ideale: una copertura di servizi così fine e capillare da intercettare tutti i problemi. Ora si capisce bene che questo progetto non è realistico, forse persino assurdo vedendo come si complicano e si aggrovigliano i problemi nei contesti postmoderni. Senza rischiare di fare come la volpe con l’uva, potremmo anche azzardare a dire che quel disegno onnicomprensivo non sia neppure auspicabile, perché andrebbe a depotenziare le capacità naturali delle comunità locali di risolvere i propri problemi, forse la risorsa più preziosa su cui dovremmo investire per contrastare il degrado avanzante.

Comunque sia, la indubbia tendenza in atto, portata dalla cultura neoliberale, è la seguente: quella di alleggerire e razionalizzare i sistemi di welfare istituzionali. Razionalizzazione nel campo del welfare vuol dire, in primis, non rincorrere più i bisogni con servizi sempre maggiori, in una logica incrementale sconnessa, bensì fissare dei limiti precisi alla spesa sociale. Inoltre vuol dire svincolare i servizi sociali dalla pubblica amministrazione e creare un sistema misto (welfare mix) regolato secondo logiche di mercato (Folgheraiter, 2003). In sintesi: lo Stato stanzia dei fondi ben limitati, questi fondi vanno a finanziare servizi che tendenzialmente dovrebbero essere gestiti da quei soggetti privati che abbiano dimostrato di essere i più efficienti, attraverso gare di appalto o comunque sottoponendosi a dinamiche di concorrenza. Così — sostengono i liberisti — la spcompetitivi, ecc.), ma anche entro un mercato assistenziale «quasi» vero, quando ad esempio le amministrazioni erogano i fondi direttamente ai consumatori sotto forma di voucher affinché questi comprino autonomamente i servizi di cui hanno bisogno (Cave, 2001; Gori, 2001). In un contesto liberista di questo genere, gli operatori sociali (in primis gli assistenti sociali) sono concepiti come case manager stretti, cioè come dei consulenti degli utenti o delle famiglie per acquistare i servizi di cui necessitano (Payne, 1999). L’operatore diviene un esperto di servizio sociale che non eroga più servizi propri o della amministrazione di appartenenza, bensì aiuta i titolari di voucher (o di soldi propri) a comprare sul
mercato le prestazioni sociali e terapeutiche necessarie. Il sistema dei servizi quindi si amplia e si pluralizza attraverso le dinamiche di liberalizzazione e privatizzazione. Diviene un sistema misto, tuttavia sempre più asfittico e controllato nelle sue prestazioni.

A farne le spese maggiori è il «sacerdote delle erogazioni», l’assistente sociale. Nel welfare state classico, l’assistente sociale eroga aiuti, compresi i trattamenti di counseling e i colloqui di assessment, secondo scienza e coscienza, senza badare a spese; nell’ottica liberista l’assistente sociale non dovrebbe sprecare tempo a erogare in prima persona, dovrebbe aiutare i consumatori a comprare da erogatori privati le prestazioni e comporre un pacchetto di servizi individualizzato. Si tratta di una funzione manageriale più che «terapeutica», e c’è da chiedersi quanto sociale sia un operatore di questo genere.

L’altra tendenza importante nelle culture di welfare attuali, che arriva anch’essa
a depotenziare in qualche misura le professioni sociali, è un incipiente disincanto verso la cura e la soluzione dei problemi. Addirittura si respira l’odore di un certo cinismo emergente. Mentre nei decenni scorsi eravamo presi in un eccesso di zelo, una tendenza persino eccessiva a eliminare i problemi di tutti, ora la tendenza è opposta. Prevalgono il pessimismo e la rassegnazione, come dire: di fronte a un tale dilagare di problemi, non possiamo pretendere troppo, facciamo quello che possiamo. La società nelle sue istituzioni si rassegna a tenersi i propri problemi, tanto — in fondo — se li tiene la gente che spesso non ha voce (Bauman, 2000).

In questo spirito di ripiegamento e di paradossale «legittimazione» della ingiustizia sociale, tipicamente postmoderna, si rafforza per contro la tendenza del controllo: le amministrazioni tendono a concentrare i loro sforzi sui doveri istituzionali di intervento coatto, con l’ossessione che non capiti qualcosa di irreparabile di cui possono essere ritenute formalmente responsabili: qualche anziano trovato morto, un minore abusato in famiglia, ecc. Di nuovo, se questo ruolo diviene prevalente, gli assistenti sociali finiscono in gabbia, sempre più presi da funzioni strettissime di servizio sociale (in realtà, una specializzazione troppo spinta sul controllo/tutela potrebbe addirittura prefigurare una professione distinta dal servizio sociale, assegnabile al campo della sicurezza piuttosto che a quello dell’aiuto).


Fabio Folgheraiter Università Cattolica del S. Cuore, Milano

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