I
sistemi di welfare attraversano profondi processi di cambiamento, che
investono inevitabilmente anche le professioni sociali. La
professione dell’assistente sociale è quella forse più
incardinata nel welfare state: il servizio sociale è la difficile
arte di far arrivare ai cittadini i servizi che la società decide di
mettere in campo tramite le decisioni politiche. Ma il lavoro sociale
ha anche altri campi aperti: quelli dell’«aiutare la società ad
aiutare», attraverso l’accompagnamento riflessivo e
l’animazione/educazione sociale. Molti assistenti sociali,
tuttavia, si collocano soprattutto nella prima funzione, quella più
istituzionale. Così, si restringe il raggio della loro
professionalità, facendo torto alla più importante caratteristica
della loro professione, quella di essere la più estesa tra tutte le
altre affini presenti nel panorama del welfare attuale.
Come
è noto, i sistemi di welfare stanno cambiando:
possiamo perfino affermare che siamo nei pressi di un vortice,
anche se non sempre percettibile, dove tutto può essere messo in
discussione e dove i principi cardine del pensiero sociale sono
sottoposti a sollecitazioni forti e rischiano anche di essere
sovvertiti. Il cambiamento investe, in alto, le logiche di sistema e
i valori di riferimento delle politiche socio-assistenziali.
Inevitabilmente esso impatta anche sulle professioni sociali. Questo
contributo propone una riflessione in merito a quali modalità e a
quale segno assuma tale impatto. Come influiscono i cambiamenti in
atto sulle professioni sociali? In che modo le condizionano? Quali
prospettive ci si aprono davanti?
Per
affrontare questi interrogativi, in via preliminare è opportuno
inquadrare la collocazione delle professioni sociali nel contesto dei
sistemi di welfare. L’ambito di lavoro diretto dei professionisti
sociali è il cosiddetto livello di campo (fieldwork),
l’interfaccia tra le organizzazioni di cura (i vari servizi sociali
pubblici e
privati, non profit e profit) e le realtà sociali che
«hanno i problemi» e «chiedono» di poterli risolvere. Quando ci
domandiamo quali siano le sfide e le prospettive del lavoro
sociale ci collochiamo a questo livello «campale», detto
frontline. Il lavoro sociale è lo spazio dove collochiamo le
professioni sociali, quali che siano, nel loro diretto
operare. Il livello sovrastante o inclusivo a quello di campo è
proprio della politica sociale: si tratta del sistema dei servizi
sociali colto nella sua integrità (la Legge 328/2000 parla di
«sistema integrato dei servizi»), sistema che può essere pensato
in strati o livelli sovrapposti, vale a dire il livello locale,
regionale, nazionale e anche sovranazionale. Il sistema dei servizi
socio-assistenziali, a ciascuno di questi livelli, può a sua volta
venire idealmente suddiviso su due linee ben distinguibili: (a) un
fronte immediatamente sopra gli operatori di campo, costituito dal
management, cioè dalla dirigenza delle singole organizzazioni
di cui i professionisti sono alle dipendenze;
(b) un fronte connettivo più largo, vale a dire il livello della
direzione (o della governance) dell’intero sistema, che
chiamiamo livello politico-amministrativo (policy making).
Per fare un esempio, il livello manageriale ci rimanda a un consiglio
direttivo di una associazione di volontariato o alla direzione
sociale di una ASL.
Il
policy making ci rimanda a un assessorato comunale alle
politiche sociali o a una commissione legislativa regionale o
parlamentare, ecc.Lo stile, la qualità, l’efficacia del lavoro
sociale sul campo dipendono in modo marcato dalla configurazione
del sistema, dagli assetti organizzativi degli enti in cui
l’operatore lavora e dagli orientamenti di politica sociale da cui
a loro volta i singoli enti dipendono.Ciò non significa che gli
operatori siano semplici esecutori/realizzatori delle politiche
sociali sancite nella legislazione o nei piani sociali locali, e
neppure delle stesse direttive o linee guida dei propri singoli enti
di appartenenza. Un professionista possiede autonomia e potere
discrezionale, non può mai essere una mera rotellina funzionale
integrata nel sistema. Il professionista sociale deve essere
in grado di affrontare i singoli problemi così come la sua
ragionevolezza e
la sua scienza gli suggeriscono. Non è un esecutore: se così fosse
non sarebbe un professionista, bensì l’addetto a un mestiere
(Prandstraller, 1980).
Tuttavia,
il marchingegno strutturale in cui l’operatore è inserito — il
sistema, lo statuto e l’organizzazione dell’ente, la legge, ecc.
— lo condiziona in vari modi, e spesso anche pesantemente. Per
fare solo un esempio, pensiamo alla tendenza, oggi molto evidente, a
sfruttare il «potere di condizionamento» del sistema per
migliorare l’efficienza degli operatori, controllando come
impiegano il loro tempo al fine di risparmiare sulla spesa. Gli
stipendi dei professionisti, in tutte le organizzazioni,
costituiscono la maggiore fonte di costo. Per questo i manager
cercano di incanalare dentro procedure ben definite le loro prassi,
in modo da evitare sprechi e anche di prevedere la produttività e
regolarla dall’alto. Questa strategia, detta «proceduralismo »,
limita la «creatività» del professionista e incanala le sue azioni
in schemi predefiniti. Tutto ciò si traduce a volte in qualche
vantaggio. Tuttavia, quando questi schemi sono troppo stretti a
fronte della imprevedibile realtà dei
bisogni, la professionalità rischia di venir meno (Harris, 1998;
Clarke, 1998; Dominelli, 2004a; 2004b)
Fabio
Folgheraiter Università
Cattolica del S. Cuore, Milano
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