venerdì 13 giugno 2014

Le professioni sociali nel contesto dei sistemi di welfare

I sistemi di welfare attraversano profondi processi di cambiamento, che investono inevitabilmente anche le professioni sociali. La professione dell’assistente sociale è quella forse più incardinata nel welfare state: il servizio sociale è la difficile arte di far arrivare ai cittadini i servizi che la società decide di mettere in campo tramite le decisioni politiche. Ma il lavoro sociale ha anche altri campi aperti: quelli dell’«aiutare la società ad aiutare», attraverso l’accompagnamento riflessivo e l’animazione/educazione sociale. Molti assistenti sociali, tuttavia, si collocano soprattutto nella prima funzione, quella più istituzionale. Così, si restringe il raggio della loro professionalità, facendo torto alla più importante caratteristica della loro professione, quella di essere la più estesa tra tutte le altre affini presenti nel panorama del welfare attuale.

Come è noto, i sistemi di welfare stanno cambiando: possiamo perfino affermare che siamo nei pressi di un vortice, anche se non sempre percettibile, dove tutto può essere messo in discussione e dove i principi cardine del pensiero sociale sono sottoposti a sollecitazioni forti e rischiano anche di essere sovvertiti. Il cambiamento investe, in alto, le logiche di sistema e i valori di riferimento delle politiche socio-assistenziali. Inevitabilmente esso impatta anche sulle professioni sociali. Questo contributo propone una riflessione in merito a quali modalità e a quale segno assuma tale impatto. Come influiscono i cambiamenti in atto sulle professioni sociali? In che modo le condizionano? Quali prospettive ci si aprono davanti?

Per affrontare questi interrogativi, in via preliminare è opportuno inquadrare la collocazione delle professioni sociali nel contesto dei sistemi di welfare. L’ambito di lavoro diretto dei professionisti sociali è il cosiddetto livello di campo (fieldwork), l’interfaccia tra le organizzazioni di cura (i vari servizi sociali pubblici e privati, non profit e profit) e le realtà sociali che «hanno i problemi» e «chiedono» di poterli risolvere. Quando ci domandiamo quali siano le sfide e le prospettive del lavoro sociale ci collochiamo a questo livello «campale», detto frontline. Il lavoro sociale è lo spazio dove collochiamo le professioni sociali, quali che siano, nel loro diretto operare. Il livello sovrastante o inclusivo a quello di campo è proprio della politica sociale: si tratta del sistema dei servizi sociali colto nella sua integrità (la Legge 328/2000 parla di «sistema integrato dei servizi»), sistema che può essere pensato in strati o livelli sovrapposti, vale a dire il livello locale, regionale, nazionale e anche sovranazionale. Il sistema dei servizi socio-assistenziali, a ciascuno di questi livelli, può a sua volta venire idealmente suddiviso su due linee ben distinguibili: (a) un fronte immediatamente sopra gli operatori di campo, costituito dal management, cioè dalla dirigenza delle singole organizzazioni di cui i professionisti sono alle dipendenze; (b) un fronte connettivo più largo, vale a dire il livello della direzione (o della governance) dell’intero sistema, che chiamiamo livello politico-amministrativo (policy making). Per fare un esempio, il livello manageriale ci rimanda a un consiglio direttivo di una associazione di volontariato o alla direzione sociale di una ASL.

Il policy making ci rimanda a un assessorato comunale alle politiche sociali o a una commissione legislativa regionale o parlamentare, ecc.Lo stile, la qualità, l’efficacia del lavoro sociale sul campo dipendono in modo marcato dalla configurazione del sistema, dagli assetti organizzativi degli enti in cui l’operatore lavora e dagli orientamenti di politica sociale da cui a loro volta i singoli enti dipendono.Ciò non significa che gli operatori siano semplici esecutori/realizzatori delle politiche sociali sancite nella legislazione o nei piani sociali locali, e neppure delle stesse direttive o linee guida dei propri singoli enti di appartenenza. Un professionista possiede autonomia e potere discrezionale, non può mai essere una mera rotellina funzionale integrata nel sistema. Il professionista sociale deve essere in grado di affrontare i singoli problemi così come la sua ragionevolezza e la sua scienza gli suggeriscono. Non è un esecutore: se così fosse non sarebbe un professionista, bensì l’addetto a un mestiere (Prandstraller, 1980).

Tuttavia, il marchingegno strutturale in cui l’operatore è inserito — il sistema, lo statuto e l’organizzazione dell’ente, la legge, ecc. — lo condiziona in vari modi, e spesso anche pesantemente. Per fare solo un esempio, pensiamo alla tendenza, oggi molto evidente, a sfruttare il «potere di condizionamento» del sistema per migliorare l’efficienza degli operatori, controllando come impiegano il loro tempo al fine di risparmiare sulla spesa. Gli stipendi dei professionisti, in tutte le organizzazioni, costituiscono la maggiore fonte di costo. Per questo i manager cercano di incanalare dentro procedure ben definite le loro prassi, in modo da evitare sprechi e anche di prevedere la produttività e regolarla dall’alto. Questa strategia, detta «proceduralismo », limita la «creatività» del professionista e incanala le sue azioni in schemi predefiniti. Tutto ciò si traduce a volte in qualche vantaggio. Tuttavia, quando questi schemi sono troppo stretti a fronte della imprevedibile realtà dei bisogni, la professionalità rischia di venir meno (Harris, 1998; Clarke, 1998; Dominelli, 2004a; 2004b)

Fabio Folgheraiter Università Cattolica del S. Cuore, Milano

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