Spesso,
in realtà, uno stesso professionista può essere solo in parte un
ingranaggio del sistema. È la condizione bivalente di molti
assistenti sociali dipendenti dai servizi pubblici, che per un verso
sono lì per far funzionare la macchina del welfare e per un
altro sono anche liberi di ragionare per allestire un aggancio
originale con la rete che richiede aiuto. Diciamo che questi
operatori hanno valenza riflessiva, cioè possono applicare la
propria intelligenza per risolvere il problema in modo originale (e
non predefinito negli schemi manageriali).
In
ogni caso, l’operatore usa quella sua libertà di pensiero e di
manovra non per risolvere lui stesso, altrimenti non sarebbe un
operatore sociale in senso pieno. Usa la libertà per
agganciarsi alla rete che cerca di risolvere, e si propone di
accompagnarla e di sostenerla nel suo percorso di fronteggiamento.
Questa è una funzione di accompagnamento riflessivo, che un
tempo si chiamava casework, ora diciamo forse meglio
counseling sociale. Per esempio: immaginiamo la mamma di un
giovane disabile che si preoccupa di trovargli un posto di lavoro e
che, assieme a una insegnante sensibile e a un volontario di una
associazione locale, si rivolge all’assistente sociale del Comune
di residenza. Se questa assistente sociale, invece di erogare un
servizio predefinito (ad esempio, un inserimento in un laboratorio
protetto), si unisce a loro per ragionare assieme su che cosa fare e
come fare, portando tutte le risorse cognitive della propria
professionalità, realizza un accompagnamento in piena regola.
Possiamo poi anche identificare un’altra funzione, solo in parte
simile. Dobbiamo pensare per questo a un operatore che, a differenza
dell’assistente sociale di cui sopra, non si aggancia a un
processo di risoluzione già in atto, al treno in corsa di un
problema conclamato che ha stimolato la reazione e l’allarme.
Pensiamo
a un esperto sociale che piuttosto stimola e anima un sociale
«intorpidito», un sociale che neppure vede i problemi e che
comunque non se ne preoccupa più di tanto, come succede di frequente
nelle nostre società frantumate e chiuse in se stesse, nella loro
corsa inconsapevole verso la postmodernità. In questo senso
l’operatore sociale professionale è un esperto visualizzatore di
possibili stati «migliori» della vita sociale di una località, un
«sognatore etico» che intende realizzare i suoi sogni e per questo
è disposto a lavorare, anche duramente, per aiutare la società a
desiderarli, così come fa lui. Parliamo a questo proposito di una
funzione di animazione/educazione sociale: un lavoro sociale
nel senso di «stimolare il sociale a prospettarsi realtà migliori e
impegnarsi per raggiungerle». Come esempio di questa importante
funzione, immaginiamo un operatore che veda il diffondersi di
abitudini o comportamenti «leggeri» dei ragazzi nei confronti
dell’alcol e cerchi di dar vita a una azione di sensibilizzazione,
contattando giovani attenti al problema che potrebbero coinvolgersi
nel progetto e pensarlo assieme a lui.Abbiamo visto quindi che il
lavoro sociale si compone pressappoco di queste dimensioni: il
servizio sociale istituzionale, il counseling di accompagnamento
riparativo, l’animazione/educazione sociale dentro le comunità
locali. Queste funzioni possono attirare varie specializzazioni
professionali, diverse figure di operatori. Solo l’assistente
sociale mi sembra possa vantarsi di poter coprire tutti e tre questi
ambiti. Un assistente sociale di un piccolo comune, adesempio, può
essere nello stesso tempo: a) tecnico di servizio sociale (pienamente
inglobato nella macchina del welfare municipale); b) consulente
professionale per la gestione di casi complessi di ordine sia
socio-assistenziale che tutelare; c) operatore inserito nei flussi
della comunità come agente di cambiamento di atteggiamenti e
produttore di capitale sociale. Sfortunatamente, molti assistenti
sociali sono ancora mentalmente attratti soprattutto dalla prima
funzione, quella più formale e istituzionale.
Si
tengono stretti e ben trincerati dietro l’etichetta di servizio
sociale, anzi la difendono contro l’uso più largo del termine
«lavoro sociale», senza capire che così facendo essi
restringono
senza motivo il raggio della loro professionalità. Essi fanno un
grave torto alla più importante caratteristica della loro
professione, quella di essere la più estesa tra tutte le altre
affini presenti nel panorama del welfare attuale. Si potrebbe
obiettare: l’assistente sociale ha un monopolio di legge per le
funzioni di servizio sociale, nessun altro operatore può
esercitarle. Un conto tuttavia è difendere questa esclusiva, un
altro affermare che in questa esclusiva si esaurisce l’intera
carica professionale.
Fabio
Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore,Milano
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