mercoledì 25 giugno 2014

Lavoro sociale e servizio sociale ( parte quinta)

Spesso, in realtà, uno stesso professionista può essere solo in parte un ingranaggio del sistema. È la condizione bivalente di molti assistenti sociali dipendenti dai servizi pubblici, che per un verso sono lì per far funzionare la macchina del welfare e per un altro sono anche liberi di ragionare per allestire un aggancio originale con la rete che richiede aiuto. Diciamo che questi operatori hanno valenza riflessiva, cioè possono applicare la propria intelligenza per risolvere il problema in modo originale (e non predefinito negli schemi manageriali).

In ogni caso, l’operatore usa quella sua libertà di pensiero e di manovra non per risolvere lui stesso, altrimenti non sarebbe un operatore sociale in senso pieno. Usa la libertà per agganciarsi alla rete che cerca di risolvere, e si propone di accompagnarla e di sostenerla nel suo percorso di fronteggiamento. Questa è una funzione di accompagnamento riflessivo, che un tempo si chiamava casework, ora diciamo forse meglio counseling sociale. Per esempio: immaginiamo la mamma di un giovane disabile che si preoccupa di trovargli un posto di lavoro e che, assieme a una insegnante sensibile e a un volontario di una associazione locale, si rivolge all’assistente sociale del Comune di residenza. Se questa assistente sociale, invece di erogare un servizio predefinito (ad esempio, un inserimento in un laboratorio protetto), si unisce a loro per ragionare assieme su che cosa fare e come fare, portando tutte le risorse cognitive della propria professionalità, realizza un accompagnamento in piena regola. Possiamo poi anche identificare un’altra funzione, solo in parte simile. Dobbiamo pensare per questo a un operatore che, a differenza dell’assistente sociale di cui sopra, non si aggancia a un processo di risoluzione già in atto, al treno in corsa di un problema conclamato che ha stimolato la reazione e l’allarme.

Pensiamo a un esperto sociale che piuttosto stimola e anima un sociale «intorpidito», un sociale che neppure vede i problemi e che comunque non se ne preoccupa più di tanto, come succede di frequente nelle nostre società frantumate e chiuse in se stesse, nella loro corsa inconsapevole verso la postmodernità. In questo senso l’operatore sociale professionale è un esperto visualizzatore di possibili stati «migliori» della vita sociale di una località, un «sognatore etico» che intende realizzare i suoi sogni e per questo è disposto a lavorare, anche duramente, per aiutare la società a desiderarli, così come fa lui. Parliamo a questo proposito di una funzione di animazione/educazione sociale: un lavoro sociale nel senso di «stimolare il sociale a prospettarsi realtà migliori e impegnarsi per raggiungerle». Come esempio di questa importante funzione, immaginiamo un operatore che veda il diffondersi di abitudini o comportamenti «leggeri» dei ragazzi nei confronti dell’alcol e cerchi di dar vita a una azione di sensibilizzazione, contattando giovani attenti al problema che potrebbero coinvolgersi nel progetto e pensarlo assieme a lui.Abbiamo visto quindi che il lavoro sociale si compone pressappoco di queste dimensioni: il servizio sociale istituzionale, il counseling di accompagnamento riparativo, l’animazione/educazione sociale dentro le comunità locali. Queste funzioni possono attirare varie specializzazioni professionali, diverse figure di operatori. Solo l’assistente sociale mi sembra possa vantarsi di poter coprire tutti e tre questi ambiti. Un assistente sociale di un piccolo comune, adesempio, può essere nello stesso tempo: a) tecnico di servizio sociale (pienamente inglobato nella macchina del welfare municipale); b) consulente professionale per la gestione di casi complessi di ordine sia socio-assistenziale che tutelare; c) operatore inserito nei flussi della comunità come agente di cambiamento di atteggiamenti e produttore di capitale sociale. Sfortunatamente, molti assistenti sociali sono ancora mentalmente attratti soprattutto dalla prima funzione, quella più formale e istituzionale.

Si tengono stretti e ben trincerati dietro l’etichetta di servizio sociale, anzi la difendono contro l’uso più largo del termine «lavoro sociale», senza capire che così facendo essi
restringono senza motivo il raggio della loro professionalità. Essi fanno un grave torto alla più importante caratteristica della loro professione, quella di essere la più estesa tra tutte le altre affini presenti nel panorama del welfare attuale. Si potrebbe obiettare: l’assistente sociale ha un monopolio di legge per le funzioni di servizio sociale, nessun altro operatore può esercitarle. Un conto tuttavia è difendere questa esclusiva, un altro affermare che in questa esclusiva si esaurisce l’intera carica professionale.


Fabio Folgheraiter - Università Cattolica del S. Cuore,Milano

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