domenica 15 giugno 2014

Cos’è il lavoro sociale e il lavoro sociale come disciplina scientifica ( parte seconda)

Cos’è il lavoro sociale

Una seconda riflessione preliminare riguarda la natura di quell’area professionale che la tradizione internazionale chiama social work. In particolare vorrei chiarire questo punto: perché a volte usiamo l’espressione lavoro sociale e a volte servizio sociale? Il lavoro sociale è un contenitore di funzioni ben distinte e differenziate, che
dovremmo riuscire a non confondere. Possiamo definire il lavoro sociale come l’arte/professione di attivare la società per risolvere specifici problemi di vita di particolari persone, gruppi o comunità (più che «per risolvere problemi», ritengo opportuno dire «per potenziare specifiche soluzioni già in atto»). Mi soffermo sul termine lavoro, che vorrei connotare nel suo significato più generale. Dobbiamo intendere che siamo davanti a uno sforzo, una fatica, che viene in genere riferita alla necessità di guadagnarsi il pane, cioè all’esercizio di un mestiere, ma non necessariamente (pensiamo, ad esempio, al lavoro organizzato e consistente di un volontario). In ogni caso facciamo riferimento a un «interessarsi di» o a un «prendersi a cuore» i singoli problemi umani ed esistenziali concreti presenti in una società determinata. In ultimo il lavoro sociale è la presa a cuore della società da parte di se stessa: il soggetto che lavora è la società stessa che ha il problema e che si propone di risolverlo, in vista del suo stesso welfare (o well being). Tipicamente si dice che il lavoro sociale è una disciplina scientifica (una scienza) e un metodo o una prassi operativa di taglio professionale.

Il lavoro sociale come disciplina scientifica
Il lavoro sociale come scienza (social work theory) studia i modi, le possibilità e anche le tecnicità del risolversi dei concreti problemi sociali dentro la società stessa (Folgheraiter, 1998). Questa scienza, stretta parente della sociologia più chedella psicologia o delle arti mediche, è una delle più difficili e sofisticate, e forse riveste anche un ruolo non indifferente per lo stesso futuro della umanità. È vero che le società se la sono sempre cavata anche senza l’auto-riflessione, sono sempre sopravvissute alle loro difficili condizioni di vita facendo leva sulle capacità intuitive di adattamento dei propri membri (spesso peraltro passando per costi umani e sofferenze e lacrime inenarrabili). È anche vero tuttavia che i cambiamenti in atto oggi inducono spiazzamenti potenziali delle persone o delle famiglie oltremodo devastanti e subdoli. Nonostante i nostri sistemi di protezione sociale siano sempre all’erta, notevoli problemi si infiltrano dappertutto: pensiamo solo al drammatico cambiamento della struttura della popolazione con le necessità di cura assistenziale; al mescolamento interetnico con frammentazioni delle comunità locali; alla caduta delle capacità genitoriali delle famiglie; al diffondersi endemico di nuove dipendenze da piaceri acuti, non solo dalle classiche droghe, e così via. In più, le nostre aspettative di benessere — come cittadini della alta modernità — sono molto elevate. Siamo sempre meno capaci di sopportare e di accettare le sofferenze. Stiamo perdendo l’attitudine alla resilienza, come dice Cyrulnik (Cyrulnik e Malaguti, 2005). Per questo, capire «scientificamente» come possiamo cavarcela con il benessere, come la società civilizzata risolverà il problema di leccarsi le ferite nel prossimo futuro, è una questione di enorme rilevanza (potremmo fare un ragionamento analogo per le società in via di sviluppo o anche per quelle sottosviluppate). Il lavoro sociale non studia il tema del welfare in astratto e in generale. Il compito di capire quali determinazioni strutturali condizionano la qualità della vita della popolazione in senso lato, e come il sistema politico amministrativo possa predisporre misure di protezione e/o di assistenza di impatto universalistico/statistico, è notoriamente proprio della politica sociale. Il lavoro sociale studia il farsi delle soluzioni sociali di portata particolaristica. Questo tuttavia non semplifica l’oggetto, anzi lo rende enormemente più complicato come opportunamente ci ricorda Boudon (1991).

Fabio Folgheraiter
Università Cattolica del S. Cuore,

Milano

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