Cos’è
il lavoro sociale
Una
seconda riflessione preliminare riguarda la natura di quell’area
professionale che la tradizione internazionale chiama social work. In
particolare vorrei chiarire questo punto: perché a volte usiamo
l’espressione lavoro sociale e a volte servizio sociale? Il lavoro
sociale è un contenitore di funzioni ben distinte e differenziate,
che
dovremmo
riuscire a non confondere. Possiamo definire il lavoro sociale come
l’arte/professione di attivare la società per risolvere specifici
problemi di vita di particolari persone, gruppi o comunità (più che
«per risolvere problemi», ritengo opportuno dire «per potenziare
specifiche soluzioni già in atto»). Mi soffermo sul termine lavoro,
che vorrei connotare nel suo significato più generale. Dobbiamo
intendere che siamo davanti a uno sforzo, una fatica, che viene in
genere riferita alla necessità di guadagnarsi il pane, cioè
all’esercizio di un mestiere, ma non necessariamente (pensiamo, ad
esempio, al lavoro organizzato e consistente di un volontario). In
ogni caso facciamo riferimento a un «interessarsi di» o a un
«prendersi a cuore» i singoli problemi umani ed esistenziali
concreti presenti in una società determinata. In ultimo il lavoro
sociale è la presa a cuore della società da parte di se stessa: il
soggetto che lavora è la società stessa che ha il problema e che si
propone di risolverlo, in vista del suo stesso welfare (o well
being). Tipicamente si dice che il lavoro sociale è una disciplina
scientifica (una scienza) e un metodo o una prassi operativa di
taglio professionale.
Il
lavoro sociale come disciplina scientifica
Il
lavoro sociale come scienza (social work theory) studia i modi, le
possibilità e anche le tecnicità del risolversi dei concreti
problemi sociali dentro la società stessa (Folgheraiter, 1998).
Questa scienza, stretta parente della sociologia più chedella
psicologia o delle arti mediche, è una delle più difficili e
sofisticate, e forse riveste anche un ruolo non indifferente per lo
stesso futuro della umanità. È vero che le società se la sono
sempre cavata anche senza l’auto-riflessione, sono sempre
sopravvissute alle loro difficili condizioni di vita facendo leva
sulle capacità intuitive di adattamento dei propri membri (spesso
peraltro passando per costi umani e sofferenze e lacrime
inenarrabili). È anche vero tuttavia che i cambiamenti in atto oggi
inducono spiazzamenti potenziali delle persone o delle famiglie
oltremodo devastanti e subdoli. Nonostante i nostri sistemi di
protezione sociale siano sempre all’erta, notevoli problemi si
infiltrano dappertutto: pensiamo solo al drammatico cambiamento della
struttura della popolazione con le necessità di cura assistenziale;
al mescolamento interetnico con frammentazioni delle comunità
locali; alla caduta delle capacità genitoriali delle famiglie; al
diffondersi endemico di nuove dipendenze da piaceri acuti, non solo
dalle classiche droghe, e così via. In più, le nostre aspettative
di benessere — come cittadini della alta modernità — sono molto
elevate. Siamo sempre meno capaci di sopportare e di accettare le
sofferenze. Stiamo perdendo l’attitudine alla resilienza, come dice
Cyrulnik (Cyrulnik e Malaguti, 2005). Per questo, capire
«scientificamente» come possiamo cavarcela con il benessere, come
la società civilizzata risolverà il problema di leccarsi le ferite
nel prossimo futuro, è una questione di enorme rilevanza (potremmo
fare un ragionamento analogo per le società in via di sviluppo o
anche per quelle sottosviluppate). Il lavoro sociale non studia il
tema del welfare in astratto e in generale. Il compito di capire
quali determinazioni strutturali condizionano la qualità della vita
della popolazione in senso lato, e come il sistema politico
amministrativo possa predisporre misure di protezione e/o di
assistenza di impatto universalistico/statistico, è notoriamente
proprio della politica sociale. Il lavoro sociale studia il farsi
delle soluzioni sociali di portata particolaristica. Questo tuttavia
non semplifica l’oggetto, anzi lo rende enormemente più complicato
come opportunamente ci ricorda Boudon (1991).
Fabio
Folgheraiter
Università
Cattolica del S. Cuore,
Milano
Nessun commento:
Posta un commento