mercoledì 18 giugno 2014

Il lavoro sociale come prassi professionale ( parte terza)

Social Work Practice 

Il lavoro sociale, oltreché come ambito conoscitivo, viene in genere meglio inteso anche come prassi professionale (social work practice). Pensiamo allora a una specializzazione della azione sociale per il benessere. Abbiamo detto che la società intera si attiva sempre per il proprio benessere, come può. Nelle società moderne tuttavia una parte di essa si specializza in questa azione di riparazione/tutela facendone un mestiere. Gli operatori sociali agiscono la parte del buon samaritano per ruolo professionale. In una nota definizione di Lubove (1965), gli operatori sociali vengono definiti «altruisti per professione». Come noto, la spinta verso questa specializzazione viene in gran parte dalla «grande committenza» del welfare state contemporaneo. L’ambito conoscitivo scientifico e l’ambito tecnico operativo sono due livelli legati, ma indipendenti. Le professioni di aiuto, e sociali in particolare, si propongono di produrre welfare utilizzando al meglio la scienza disponibile ma anche, e forse soprattutto, le capacità riflessive immediate di ogni interessato (il professionista medesimo o le altre persone con cui è in contatto) (Folgheraiter, 2007; Hoggett, 2001). Per fare il bene di altri, l’operatore professionale usa un opportuno miscuglio di scienza e coscienza: informa di scienza la coscienza e con la coscienza controlla la scienza. L’importanza di questa riflessività, e dello stesso buon senso degli operatori sociali, si comprende meglio pensando che c’è stato un tempo in cui la scienza del lavoro sociale «non c’era», mentre il lavoro sociale pratico (le professioni sociali) sì. Senza le teorie, gli operatori ragionavano con la loro testa attingendo dalla propria abilità d’aiuto specializzatasi attraverso la loro esperienza personale. Quando il procedere per tentativi ed errori produceva un buon risultato — quando le prassi sperimentate si rivelavano «buone» —, quel sapere così prodotto veniva istituzionalizzato, cioè veniva trattenuto nelle abitudini e nelle procedure, prima del singolo operatore e del sistema professionale (facendo emergere il lavoro sociale) e poi del sistema di welfare più in generale (facendo emergere questa o quella social policy) (Bortoli, 2006). Con queste affermazioni non vogliamo negare che una seria base scientifica sia essenziale per ogni profilo professionale. Tuttavia, così come abbiamo sopra segnalato la necessità per i professionisti del sociale di essere nel contempo dentro e fuori il sistema del welfare, così diciamo che esiste la stessa necessità di essere nel contempo dipendenti e indipendenti (mentalmente autonomi) dalle prescrizioni scientifiche generalizzanti. Il lavoro sociale è quindi una professionalità di aiuto, un «saper aiutare» con metodo e sapienza. Inoltre, è un aiutare adottando un taglio preciso, che deve rimanere sempre vivo: quello sociale. Ribadiamolo: è la società (il sociale) che aiuta (Domenach et al., 1972), e il professionista aiuta la società ad aiutare se stessa: non solo i propri membri deboli o le famiglie /comunità più disagiate, ma tutti coloro che aspirano a un maggiore benessere. Il professionista stesso è un membro della società cosicché, quando egli aiuta, è in ultimo la società che lo fa tramite lui. Tuttavia, in quanto operatore «sociale», egli indirizza la sua azione non già a risolvere problemi in prima persona, raccogliendo in toto la delega di cui sopra, bensì ad aiutare la stessa società a risolvere le problematiche.


Fabio Folgheraiter, Università Cattolica del S. Cuore, Milano

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