Social Work Practice
Il
lavoro sociale, oltreché come ambito conoscitivo, viene in genere
meglio inteso anche come prassi
professionale (social
work practice).
Pensiamo allora a una specializzazione della azione sociale per il
benessere. Abbiamo detto che la società intera si attiva sempre per
il proprio benessere, come può. Nelle società moderne tuttavia una
parte di essa si specializza
in questa azione di
riparazione/tutela facendone un mestiere. Gli operatori sociali
agiscono la parte del buon samaritano per ruolo professionale. In una
nota definizione di Lubove (1965), gli operatori sociali vengono
definiti «altruisti per professione». Come noto, la spinta verso
questa specializzazione viene in gran parte dalla «grande
committenza» del welfare state contemporaneo. L’ambito conoscitivo
scientifico e l’ambito tecnico operativo sono due livelli legati,
ma indipendenti. Le professioni di aiuto, e sociali in particolare,
si propongono di produrre welfare utilizzando al meglio la scienza
disponibile ma anche,
e forse soprattutto, le capacità riflessive immediate di ogni
interessato (il professionista medesimo o le altre persone con cui è
in contatto) (Folgheraiter, 2007; Hoggett, 2001). Per fare il bene di
altri, l’operatore professionale usa un opportuno miscuglio di
scienza e coscienza: informa di scienza la coscienza e con la
coscienza controlla la scienza. L’importanza di questa
riflessività, e dello stesso buon senso degli operatori sociali, si
comprende meglio pensando che c’è stato un tempo in cui la scienza
del lavoro sociale «non c’era», mentre il lavoro sociale pratico
(le professioni sociali) sì. Senza le teorie, gli operatori
ragionavano con la loro testa attingendo dalla propria abilità
d’aiuto specializzatasi attraverso
la loro esperienza personale.
Quando il procedere per tentativi ed errori produceva un buon
risultato — quando le prassi sperimentate si rivelavano «buone»
—, quel sapere così prodotto veniva istituzionalizzato, cioè
veniva trattenuto nelle abitudini e nelle procedure, prima del
singolo operatore e del sistema professionale (facendo emergere il
lavoro sociale) e poi del sistema di welfare
più in generale
(facendo emergere questa o quella social
policy) (Bortoli,
2006). Con queste affermazioni non vogliamo negare che una seria base
scientifica sia essenziale per ogni profilo professionale. Tuttavia,
così come abbiamo sopra segnalato la necessità per i professionisti
del sociale di essere nel contempo dentro e fuori il sistema del
welfare, così diciamo che esiste la stessa necessità di essere nel
contempo dipendenti e indipendenti (mentalmente autonomi) dalle
prescrizioni scientifiche generalizzanti. Il lavoro sociale è quindi
una professionalità di aiuto, un «saper aiutare» con metodo e
sapienza. Inoltre, è un aiutare adottando un taglio preciso, che
deve rimanere sempre vivo: quello sociale.
Ribadiamolo: è la società (il sociale) che aiuta (Domenach et al.,
1972), e il
professionista aiuta la società ad aiutare se stessa:
non solo i propri membri deboli o le famiglie /comunità più
disagiate, ma tutti coloro che aspirano a un maggiore benessere. Il
professionista stesso è un membro della società cosicché, quando
egli aiuta, è in ultimo la società che lo fa tramite lui. Tuttavia,
in quanto operatore «sociale», egli indirizza la sua azione non già
a risolvere problemi in prima persona, raccogliendo in
toto la delega di cui
sopra, bensì ad aiutare la stessa società a risolvere le
problematiche.
Fabio
Folgheraiter, Università Cattolica del S. Cuore, Milano
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