«La
mia Reyhaneh è stata impiccata. Aveva
la febbre mentre danzava sul patibolo».
Shole Pakravan piange così la figlia di 26 anni su Facebook, il
giorno prima di accompagnare la bara al cimitero di Teheran.
«Domani alle 10 del mattino saluterò la sua salma…. Sono
un soldato che ha perso il suo comandante e il suo amore, seduto sul
mare senza fine della tristezza»,
continua Shole, un’attrice teatrale. E nelle sue parole
riecheggiano i versi del poeta sufi Mansour Hallaj, un tempo anche
lui finito sulla forca. Poco dopo, Shole risponde al telefono dalla
sua casa di Teheran. «Il vero responsabile di tutto questo — dice
al Corriere —
è
il potere giudiziario iraniano».
Sua
figlia Reyhaneh Jabbari, un’arredatrice di interni, è stata
giustiziata ieri all’alba per l’omicidio di un medico ed ex
funzionario dell’intelligence, Mortaza Abdolali Sarbandi.
Nel 2009 durante il processo, la ragazza aveva sostenuto di
averlo pugnalato per legittima difesa. Aveva raccontato di averlo
conosciuto in un internet café: lui, sentendola parlare di lavoro,
le si era avvicinato e le aveva offerto un impiego (arredare il suo
ufficio); poi però l’aveva portata in un appartamento e aveva
tentato di stuprarla; e lei l’aveva pugnalato con un coltello
tascabile ed era fuggita. Reyhaneh sosteneva che le ferite
inflitte non avrebbero da sole potuto ucciderlo, e aveva additato
come assassino un misterioso terzo uomo di nome Sheikhy, giunto
mentre lei scappava. Ma i giudici l’hanno giudicata colpevole di
omicidio premeditato. Un processo cheAmnesty
International e
altre organizzazioni per i diritti umani definiscono «viziato» —
tra prove sparite, limitazioni a vedere l’avvocato, confessioni
estorte in isolamento. C’è anche chi crede che il caso sia stato
insabbiato proprio perché un uomo dell’intelligence era stato
additato come stupratore.
Per
anni, la madre ha condiviso su Facebook l’attesa, la paura, la
rabbia. È stato soprattutto grazie ai suoi messaggi che è
nata la campagna internazionale che chiedeva un nuovo processo, più
equo. Una campagna cresciuta negli ultimi mesi, con l’appoggio di
diversi artisti iraniani e un totale di 240.000 firme. Ma non è
bastata a salvarla.
L’ultima
speranza era il perdono della famiglia dell’uomo ucciso: poteva
rinunciare ad applicare la legge del taglione (qisas). Ma Jalal
Sarbandi, il figlio, ha rifiutato. Era in piedi davanti alla forca
ieri con due parenti, per far rispettare «il diritto di
sangue» di suo padre. Molti commenti su Facebook si scagliavano
contro di lui. Ma Shole spiega al telefono di non nutrire astio nei
suoi confronti, di considerare responsabile il regime.
Ha
potuto dire addio alla figlia venerdì, faccia a faccia,
ma non è stata ammessa all’esecuzione. Ha
passato la notte con un’ottantina di sostenitori davanti al
carcere, piangendo e chiedendo aiuto a Dio. Per
due volte, in passato, la sentenza di morte contro Reyhaneh era stata
sospesa: ad aprile e poi a fine settembre. «Mamma,
devi lasciarmi andare, basta»,
l’aveva supplicata la figlia. Shole voleva ascoltarla, tanto che
aveva scritto su Facebook: «Da oggi mi siederò in silenzio in un
angolo. Non scriverò più nulla». Ma non poteva tacere, doveva
cercare di salvarla.
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