domenica 26 ottobre 2014

Reyhaneh.

«La mia Reyhaneh è stata impiccata. Aveva la febbre mentre danzava sul patibolo». Shole Pakravan piange così la figlia di 26 anni su Facebook, il giorno prima di accompagnare la bara al cimitero di Teheran.  «Domani alle 10 del mattino saluterò la sua salma…. Sono un soldato che ha perso il suo comandante e il suo amore, seduto sul mare senza fine della tristezza», continua Shole, un’attrice teatrale. E nelle sue parole riecheggiano i versi del poeta sufi Mansour Hallaj, un tempo anche lui finito sulla forca. Poco dopo, Shole risponde al telefono dalla sua casa di Teheran. «Il vero responsabile di tutto questo — dice al Corriere — è il potere giudiziario iraniano». Sua figlia Reyhaneh Jabbari, un’arredatrice di interni, è stata giustiziata ieri all’alba per l’omicidio di un medico ed ex funzionario dell’intelligence,  Mortaza Abdolali Sarbandi. Nel 2009 durante il processo, la ragazza aveva sostenuto  di averlo pugnalato per legittima difesa. Aveva raccontato di averlo conosciuto in un internet café: lui, sentendola parlare di lavoro, le si era avvicinato e le aveva offerto un impiego (arredare il suo ufficio); poi però l’aveva portata in un appartamento e aveva tentato di stuprarla; e lei l’aveva pugnalato con un coltello tascabile ed era fuggita. Reyhaneh  sosteneva che le ferite inflitte non avrebbero da sole potuto ucciderlo, e aveva additato come assassino  un misterioso terzo uomo di nome Sheikhy, giunto mentre lei scappava. Ma i giudici l’hanno giudicata colpevole di omicidio premeditato. Un processo cheAmnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani definiscono «viziato» — tra prove sparite, limitazioni a vedere l’avvocato, confessioni estorte in isolamento. C’è anche chi crede che il caso sia stato insabbiato proprio perché un uomo dell’intelligence era stato additato come stupratore. Per anni, la madre ha condiviso su Facebook l’attesa, la paura, la rabbia. È stato soprattutto grazie ai suoi messaggi  che è nata la campagna internazionale che chiedeva un nuovo processo, più equo. Una campagna cresciuta negli ultimi mesi, con l’appoggio di diversi artisti iraniani e un totale di 240.000 firme. Ma non è bastata a salvarla. L’ultima speranza era il perdono della famiglia dell’uomo ucciso: poteva rinunciare ad applicare la legge del taglione (qisas). Ma Jalal Sarbandi, il figlio, ha rifiutato. Era in piedi davanti alla forca ieri  con  due parenti, per far rispettare «il diritto di sangue» di suo padre. Molti commenti su Facebook si scagliavano contro di lui. Ma Shole spiega al telefono di non nutrire astio nei suoi confronti, di considerare responsabile il regime. Ha potuto dire  addio alla figlia venerdì, faccia a faccia,   ma non è stata ammessa all’esecuzione. Ha passato la notte con un’ottantina di sostenitori davanti al carcere, piangendo e chiedendo aiuto a Dio. Per due volte, in passato, la sentenza di morte contro Reyhaneh era stata sospesa: ad aprile e poi a fine settembre. «Mamma, devi lasciarmi andare, basta», l’aveva supplicata la figlia. Shole voleva ascoltarla, tanto che aveva scritto su Facebook: «Da oggi mi siederò in silenzio in un angolo. Non scriverò più nulla». Ma non poteva tacere, doveva cercare di salvarla.


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