martedì 25 novembre 2014

C'è una domanda che non trova risposta.

C’è una domanda che non trova risposta. Perché in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito, un fidanzato, spesso compagni o ex compagni di anni di vita, padri di figli cresciuti insieme? «Come si fa ad ammazzare una ragazza per un litigio?», chiedeva il papà di Vanessa Scialfa, la giovane di Enna vittima a primavera, appena ventenne, del suo convivente. E c’è una seconda domanda che ci disorienta. Perché una donna — adulta, libera — al primo spintone, o anche alle prime parole selvagge, non allontana da sé per sempre l’uomo che la sta minacciando? Gli resta invece accanto, preferisce ripetersi «non sta succedendo a me» e prepararsi il giorno dopo a dire ai figli — poi ai colleghi, agli amici — che non è niente, che ha di nuovo sbattuto contro la porta.

La verità è che qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo. Rivela che quella relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra; ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna. Il potere maschile resta intrecciato all’ordine sociale e continua a lavorare «nell’oscurità dei corpi»: squilibra i rapporti e i ruoli, presidia la cultura e il linguaggio, cerca di riaffermarsi nelle scuole e nelle famiglie.

La «violenza domestica» — quella subita dagli uomini di casa, anche padri o fratelli — è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni: più degli incidenti stradali, più delle malattie. Per questo dobbiamo subitoliberarci dell’idea del mostro, o di tanti mostri, dobbiamo sottrarci a quella reazione immediata che ci porta a dire: io non sono così, noi siamo normali. La violenza sulle donne, che in alcuni casi si spinge fino all’omicidio definito per la prima volta «femminicidio» da una sentenza del 2009, non è una collezione di fatti privati: è una tragedia che parla a tutti. Soprattutto, che riguarda tutti gli uomini. Ora noi sappiamo che non sarà un appello, una nuova Carta dei diritti, non saranno uno spettacolo, un documentario, un’inchiesta o un libro a fermare la strage delle donne; neanche le migliori leggi — pur necessarie — basteranno.

Eppure parlarne, scrivere, raccontare le storie, trovarsi numerosi in questa domenica di fine novembre, muoversi insieme, donne e uomini, andare nei teatri o nelle strade con un pensiero comune anti-violenza: tutto questo è un passo importante per capire. E capirci qualcosa aiuta noi a superare quel senso di turbata estraneità che ci prende davanti ai fatti di cronaca e aiuta magari le vittime, almeno alcune tra loro, a scuotersi e salvarsi in tempo.
Oggi la Convenzione «No More!» — che nelle ultime settimane ha raccolto migliaia di adesioni tra organizzazioni e persone molto diverse tra loro — sarà portata nelle piazze. E’ il punto di arrivo di un impegno civile diffuso che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha riconosciuto e incoraggiato. In questa giornata, sarebbe già un conforto poter pensare che il silenzio è rotto. Femminicidio non è una bella parola, è vero, ma stiamo imparando a pronunciarla per dare finalmente un nome, che suona antico e non lo è affatto, all’uccisione delle donne perché donne.
Dalla 27 ora.it

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